La resistenza armata faentina fin dal suo sorgere presenta caratteristiche particolari, che trovano riscontro nelle condizioni politico-economico-culturali della città, e sono perciò differenti da quelle di molti altri centri della stessa provincia.
Tuttavia in comune con il restante territorio di Ravenna vi è una visione unitaria che avvicina tutte le correnti politiche antifasciste. Infatti al 25 luglio si costituisce un “ comitato cittadino “di cui fanno parte comunisti, socialisti, cattolici, repubblicani e liberali. È questo organismo che, fra l’altro, decide di passare all’azione non appena arriverà l’armistizio.
Si assiste ad un primo periodo, settembre-ottobre 1943, di veggente tempestività dell’organizzazione della Resistenza armata, al quale, nel breve volgere di due mesi, fa seguito uno scadimento altrettanto rapido che si spiega soprattutto con le inadeguate strutture del PCI. Questa altalena di posizioni, che coinvolge tutto l’arco democratico, è il frutto dell’impreparazione dei dirigenti comunisti, i quali a settembre irrompono sulla scena politica con una visione eccessivamente semplicistica della lotta, che non tiene conto del necessario legame con le masse e con i centri di direzione nazionale e provinciale. Per questo il Partito non è in grado di dirigere le forze che esso ha costituito e, mancando della necessaria direzione politica, il movimento armato si arresta.
Nel mese di febbraio del 1944 il PCI torna alla direzione della lotta politica e della Resistenza nel faentino, con l’invito da parte della federazione di un funzionario (Amos), già esperto di organizzazione di Partito e di lotta armata. Subito la resistenza riprende vigore.
Sotto la spinta del PCI anche gli altri partiti del CLN si ti attivizzano con più o meno scioltezza.
Un posto a sé occupa l’ORI, che faceva capo a Virgilio Neri, il quale, fino al 28 luglio del 1944, svolse un ruolo di alto livello.
Nello scrivere la storia del movimento abbiamo voluto dedicare un capitolo a ciascuna delle varie componenti della resistenza nel faentino, al fine di meglio rappresentare la sua complessa articolazione.
* per la fattiva collaborazione ringrazio vivissimamente: Antonio Farneti, William Gazza, Virgilio Neri, Gino Sansovini e tutti coloro che mi hanno rilasciato testimonianze: Alessandrini Giulio; Bedeschi Edoardo; Bedeschi Lino; Bartoli Quinto; Banzola Tosca; Benazzi Enrico; Benazzi Maria; Ciani Dino; Ceroni Francesco; Donati Francesco; Donatini Francesco; Erani Guerrino; Fagnocchi Pietro; Fuselli Virgilio; Marabini Mario; Iride Raimondo; Martelli Giuseppe; Muccinelli Giuseppe; Palli Primo; Piancastelli Maria; Pini Ettore; Pirazzini Ercole; Samorè Luigi; Sangiorgi Vincenzo; Steri Livio; Testa Efren; Valla Natale; Un gruppo di dipendenti Banca Popolare; Verità Annunziata; Vigna Mario; Vignoli Mario; Drei Ebro; e tutti i partigiani faentini.
Il 20 settembre 1943 Faenza aveva già una formazione partigiana di circa 60 uomini e disponeva dell’equipaggiamento di tre caserme. Ai primi di novembre la formazione era frantumata, le armi e l’equipaggiamento quasi totalmente dispersi o consumati. Le cause di questa rapida disgregazione sono molteplici e di origine diversa, spesso contrastanti, ma tutte rispondono ad una logica che affonda le radici nella situazione generali e, soprattutto, nella storia e nella tradizione anarcoide della città.
Per meglio comprendere valutare il quadro politico militare testé enunciato, sarà utile seguire cronologicamente lo svolgersi dei fatti.
Il 26 luglio del ’43 a Faenza, come del resto in quasi tutte le città centro-settentrionali, la popolazione manifestava la sua gioia per la caduta della dittatura fascista; assaporava, dopo vent’anni, la rinnovata libertà, invocava la fine immediata della guerra.
I fascisti, specialmente quelli che per due decenni avevano dominato la vita politica, ingombrate le piazze, gli uffici e che sì erano macchiati di soprusi e di delitti erano scomparsi. La milizia (MVSN) quasi ovunque aveva gettato la divisa e le armi, sciogliendosi di moto proprio, prima ancora che venisse pubblicato il relativo decreto del Governo Badoglio.
A Faenza i militi della Legione Manfredi si erano barricati dentro la caserma di corso Mazzini, al n. 72.
La manifestazione cittadina, sorta spontanea, si svolgeva incontrollata. vi partecipava gente di ogni età, ceto sociale e sesso, unita dalla comune avversione alla guerra, delusa e avvilita da vent’anni di demagogia e di smania di grandezze, si era formato un corteo che si allungava e ingrossava continuamente. Man mano che la colonna incontrava insegne littorie, queste venivano abbattute e la folla si eccitava. S’intonavano canti patriottici e rivoluzionari, che solo pochi anziani conoscevano. Ne usciva un suono confuso, il quale, anziché dar sfogo alla carica emotiva, accresceva la rabbia. Era un gran vociare incitante alla giustizia, alla condanna dei fascisti, alla fine della guerra.
Qualcuno grida che la milizia della Manfredi si è asserragliata in caserma e senza che nessuno ordini nulla, il corteo proveniente da via Baccarini, anziché dirigersi verso il centro, piega a destra e fa resa davanti al n. 72 di corso Mazzini.
Gli antifascisti comprendono che la situazione può sfociare infatti gravi, tentano di prendere il controllo della situazione, tornare indietro non si può, è troppo tardi. L’eccitazione aumenta. Dopo uno scambio di idee, coloro che si trovano in testa alla calca, fra cui Quinto Bartoli, comunista, bussano alla porta nell’intento di ottenere la volontaria sottomissione e, quindi, l’abbandono della caserma dalla parte della milizia. Nell’interno regna il panico; invece di cercare la via conciliativa, i fascisti sparano nel portone. I proiettili trapassano le assi, uccidono il giovane Clemente Ghirlandi, di distinta famiglia borghese; feriscono gravemente a un piede il comunista Carlo Cisanti e colpiscono altri in modo leggero. Sono quelle le ultime vittime del morto regime. Il fatto aggrava la posizione dei militi, tanto che due si suicidano e altri fuggono saltando nel cortile del Caffè Caroli.
I funerali di Ghirlandi rinnovano le manifestazioni dei faentini. Intorno a questo lutto i partiti democratici non solo si trovano uniti nella condanna, ma comprendono anche che è necessaria un’azione comune per cancellare il triste passato e restaurare un nuovo assetto politico-sociale. Questo clima, sorto spontaneo con la caduta del fascismo, resterà inalterato, anzi si rafforzerà durante il periodo della Guerra di Liberazione.
All’8 settembre, quando è proclamato l’armistizio, seguito dalla disgregazione dell’esercito, gli stessi partiti sono concordi nell’intraprendere subito la lotta contro i nazisti e il risorgente fascismo. È chiaro per tutti che l’Italia s’avvia verso un periodo di aspra lotta. I comunisti, guidati dal dottor Angelo Morelli, sono in prima fila. Sono loro che vanno a parlare con comandanti dei tre presìdi militari locali per reclamare l’impegno di combattere i tedeschi e, in caso di rifiuto, per far consegnare le armi al popolo. Gli ufficiali dapprima respingono qualsiasi ingerenza, poi ci ripensano, vestono abiti civili e se ne vanno, abbandonando la truppa ai suoi destini. Allora incomincia il recupero del materiale. Vengono fatti alcuni trasporti con un camion. Tutto quello che costituiva l’armamento e l’equipaggiamento di tre caserme è caricato e trasferito a villa “ Le Case Grandi “di proprietà dei conti Ferniani, a cinque chilometri dalla città, verso Brisighella.
La residenza dei Ferniani, cittadini di tendenze liberali, diviene la base dell’attività dei “ ribelli “. È qui che si costituisce la prima formazione guerrigliera della Romagna.
Vestiti e armati, i «ribelli» partono dalle Case Grandi per raggiungere la Samoggia. Sono circa quaranta e altri se ne aggiungono nei giorni seguenti. Giunti a destinazione pongono mano all’organizzazione della banda: vengono formate due compagnie di circa trenta uomini ciascuna, una comanda da Francesco Donatini, l’altra da Enrico Ferro, “ il Tenente “. Commissario per il primo gruppo è nominato Gino Monti, mentre per il secondo tale incarico viene tenuto da diversi, fra cui Paolo Ragazzini, Mario Badiali ed altri (1).
Funzioni speciali, come quella dei collegamenti col PCI e col Comitato Cittadino (2), sono attribuite allo stesso Badiali, a Nino Cimatti e a Pietro Ferrucci.
I primi giorni trascorrono nell’atmosfera esaltante di un’avventura che si spera non duri a lungo. I comandanti militari si rendono conto che occorre dare ai giovani un addestramento e una disciplina, e lo fanno secondo i principi tradizionali, appresi sotto le armi. Ma tale pratica viene intesa dai più come frutto di una mentalità sorpassata e limitazione della libertà individuale. I commissari non sempre, e non tutti, sono d’accordo con i comandanti militari. C’è chi solidarizza con gli indisciplinati e, quando le munizioni vengono sciupate sparano al vento, si afferma che «è necessario pulire le canne dei fucili».
La formazione nasce quindi con una struttura verticale inadeguata. Se a ciò si aggiunge che non si tiene conto delle direttive nazionali emanate dal PCI fin dal 7 settembre, alle quali indicano la strategia e la tattica della lotta armata, non sarà difficile prevedere un risultato deludente.
In ottobre anche il tono della direzione politica scade. La dermatologia della Repubblica sociale invischia uomini di sinistra in perfetta buona fede, che accettano di discutere un «patto di pacificazione» fra i neo-fascisti e gli antifascisti. Si trattava di un’azione che ebbe il suo aspetto più clamoroso nella scelta del socialista Nullo Baldini quale direttore della Federazione delle Cooperative di Ravenna.
Gli effetti di questa condotta in Faenza furono essenzialmente due: a) venne meno la guida politica (3) per la nascente Resistenza; b) caddero i collegamenti con gli organi provinciali.
Questi rapporti saranno riallacciati soltanto in febbraio, periodo in cui avviene la ripresa della lotta su nuove basi.
Intanto nella formazione si fa strada il disordine, i contrasti fra i dirigenti diventano più acuti; nessuno dispone di esperienza guerrigliera (non c’è chi sia stato in Spagna), né di personalità politica e morale tale da meritargli la fiducia degli uomini.
Tuttavia la banda può egualmente raccogliere alcuni successi. Animata dalla carica ribelistica che ha presieduto alla sua costituzione, comandata da Donatini, il 22 settembre la prima compagnia assalta le carceri di Rocca S. Casciano e libera i prigionieri politici, sollevando l’entusiasmo della popolazione che manifesta all’aperto.
Il Tenente Ferro, con una piccola squadra, avuto notizia che in un albergo di Santa Sofia soggiorna un alto ufficiale incaricato di studiare le difese Germaniche sul nostro Appennino, la notte fra il 23 e il 24 ottobre, sopprime il nazista e si impossessa dei disegni della futura Linea Gotica. I documenti catturati, tramite il dottor Virgilio Neri, vengono recapitati all’Ambasciata USA in Svizzera e gli alleati entrano in possesso di importantissimi segreti militari.
Nonostante questi esiti la discordia si diffonde, diversi partigiani abbandonano la banda. Gli stessi Donatini, Ferro e Ragazzini non se la sentono più di presiedere una formazione di cui non condividono la condotta.
Al comando resta soltanto Gino Monti. Il gruppo, notevolmente ridotto, viene continuamente individuato ed attaccato, senza però subire perdite. Per sfuggire ai nemici la banda si spinge verso lo spartiacque appenninico, lo valica e raggiunge le falde sud-occidentali del Falterona. Ma anche qui viene localizzata e i tedeschi si dispongono ad accerchiarla. Virgilio Neri, avuta notizia del rastrellamento in preparazione, assieme a Nino Cimatti, fa in tempo ad intervenire e a condurre i partigiani fuori dall’accerchiamento. Dopo la ritirata, sulla via del ritorno verso Faenza, la banda si scioglie. È il 4 novembre 1943.
1 Donatini Francesco, comunista di Faenza, sergente maggiore dell’Esercito. Ferro Enrico (Il Tenente), ufficiale di complemento dell’esercito, domiciliato a Savona, sbandato nel faentino.
Monti Gino, noto comunista faentino.
Badiali Mario, comunista faentino.
La struttura organizzativa si richiamava a quella delle Brigate Internazionali di Spagna. Tutti gli incarichi più importanti, fatta eccezione per Ferro (di tendenze monarchiche), vennero affidati a comunisti di lunga milizia clandestina.
2 I comitati antifascisti sorsero quasi ovunque dopo il 25 luglio e vennero chiamati in vari modi, ma tutti adottarono poi la denominazione di Comitato di Liberazione Nazionale.
3 Occorre ricordare che durante i 45 giorni del Governo Badoglio i dirigenti del PCI si erano esposti eccessivamente scoprendo l’organizzazione, e di conseguenza alcuni erano stati poi catturati e uccisi dai fascisti, altri avevano dovuto trasferirsi altrove.
IUn giorno della prima decade di ottobre, quattro partigiani faentini (Max Emiliani, Dino Ciani, Matteo Molignoni e Amerigo Donadini) lasciano la banda di Gino Monti sul monte Marco Zanella per andare a comperare sigarette a Rocca San Casciano. Giunti nella cittadina vengono avvertiti che la GNR, con un camion, porta via il grano dal Consorzio Agrario. I fascisti vengono affrontati, hanno la peggio e i quattro partigiani si impadroniscono dell’automezzo e delle divise dei militi; partono dirigendosi verso il passo delle Cento Forche. Si travestono e danno vita al gruppo che resterà famoso sotto il nome del “ Camion Fantasma “. Incominciano l’avventura disarmando la Caserma dei Carabinieri di Premilcuore.
Alcuni giorni dopo anche Silvio Corbari si unisce al gruppo apportandovi ulteriore spericolatezza. Uno spettacolare susseguirsi di azioni sottolinea la breve esistenza della prima squadra Gap della Romagna. Una serie di stazioni di carabinieri vengono svuotate fra cui quelle di Castelbolognese e Solarolo, i posti di blocco lungo le strade sono forzati e, alcuni, totalmente eliminati. Il gruppo poi, attraverso le camionate del Bidente, si spinge oltre l’Appennino, nel Casentino, fino a Bibbiena, cogliendo di sorpresa carabinieri e presidi di GNR. Dopo un’incalzante catena di imprese, la notte del 4 novembre, a Villa Fontana, nel bolognese, in casa del generale del fascio, avviene uno scontro a fuoco. Nella sparatoria restano morti due fascisti e due carabinieri; ma anche due partigiani, Dino Ciani e Marx Emiliani, vengono gravemente feriti. Tuttavia i compagni riescono a portarli in salvo a Faenza.
Privato di due elementi, il gruppo si scioglie. Successivamente Emiliani e Donatini saranno catturati e, dopo aver patito un calvario di torture, saranno fucilati a Bologna, il 30 dicembre 1943.
In tutti i nuclei partigiani, nei primi tempi, confluiscono elementi di incerta convenzione politica: sbandati veri e simulatori che devono mascherare il mestiere di spia. Quando uno di questi elementi si allontana dalla reparto, quasi sempre, il giorno dopo, arrivano i tedeschi. L’inesperienza è la mancata o insufficiente vigilanza sono spesso pagate a caro prezzo.
La presenza di questi agenti fu sentita già dalla prima banda faentina mentre si muoveva lungo il crinale che dal Samoggia conduce allo spartiacque appenninico. I danni subiti furono irrilevanti soltanto perché la formazione di spostava di continuo e quindi la sua localizzazione riusciva difficoltosa.
A primavera, con lo sviluppo dell’organizzazione, le cose cambiarono radicalmente. Mobilitando i contadini in tutta la campagna si costituiva una rete efficiente di vigilanza. Ogni elemento che compariva nella zona veniva seguito in ogni sua mossa e quando i sospetti si facevano consistenti i partigiani lo fermavano, perquisivano e interrogavano. Gli agenti nemici portavano sempre la piastrina di riconoscimento occultata nelle cuciture dei vestiti. Per questa attività i fascisti non disdegnarono di servirsi anche di ragazze, le quali, scoperte, anch’esse furono passate per le armi.
Una delle vittime più note dello spionaggio fascista fu il prof. Renato Emaldi, comunista, catturato e ucciso nei pressi del Casone di Tura (Fognano) il 24 aprile del ’44. I suoi collaboratori, Ermenegildo Montevecchi e Amedeo Liverani, che non fecero in tempo a mettersi al sicuro, vennero arrestati, torturati e deportati in Germania.
Vittima di un’altra spiata fu il gruppo che, il 16 marzo, guidato da Guccio (Domenico Mongardi) di Lugo, diretto al Falterona, cadde in un’imboscata presso il Ponte di Marignano sul Lamone. Un partigiano, Sauro Babini, restava ucciso e il gruppo si sbandava.
Gli autori delle due spiate vennero scoperti e giustiziati.
La banda Corbari, la quale, per le sue caratteristiche politiche, era scarsamente difesa contro l’insidia, fu il bersaglio preferito dell’azione spionistica, dalla strage di Cà Morelli del 22 gennaio del ’44, alla cattura dello stesso Corbari avvenuta il 18 agosto del medesimo anno. Convinti che questa forma di penetrazione potesse continuare a dare risultati i nazifascisti, due settimane più tardi, inviavano una “ missione inglese “presso la banda che si trovava a Berniamico (monte del Tesoro), con la finta proposta di far giungere un aviolancio di armi. Le quattro spie vennero scoperte mentre si apprestavano a comunicare al loro comando la consistenza e la dislocazione della formazione.
Quando la banda capeggiata da Gino Monti prende la via dell’Appennino, coloro che non hanno in animo di seguirla, si raccolgono intorno ad Aldo Celli. Egli è uscito da poco dal carcere fascista, dopo una lunga detenzione. Ha un passato politico di grande prestigio e di fronte al tribunale speciale ha ottenuto un contegno esemplare. È stato fra i fondatori del PCI e ne ha poi retto la segreteria per molti anni.
La sua apparizione fra i partigiani fa risorgere molte speranze che sembravano frustrate.
È un uomo ricco di umanità e di conoscenze politiche e i giovani in particolare trovano in lui un padre e un maestro. Tuttavia le doti di Aldo Celli non sono sufficienti per farne anche un capo guerriero. Per questa ragione, quando arriva Corbari, reduce dalle scorrerie del Camion Fantasma, viene subito nominato comandante.
La banda Celli Corbari conta una trentina di uomini. Dicembre è appena cominciato, ma l’inverno si presenta rigido. La prima neve imbianca i monti; a Natale coprirà i fondivalle e i partigiani saranno costretti a vivere nelle case. La banda si trova sulle montagne ad est di Tredozio e qui, in queste condizioni, matura la decisione di occupare il paese.
Alle prime luci del 13 gennaio 1944 una quindicina di partigiani attacca la caserma dei carabinieri, i quali, dopo un primo tentativo di resistenza, consegnano le armi e vengono lasciati liberi. La popolazione esulta. Corbari, portato in trionfo, improvvisa un confuso discorso. L’occupazione viene mantenuta per nove giorni da una pattuglia partigiana affiancata da alcuni civili; gli altri restano alla base, a Cà Morelli, nelle vicinanze della camionabile che collega Tredozio a Portico, sul Montone. Il monte della Busca si stende sopra la casa, ricoperta di castagni carichi di neve.
La ronda patriottica in Tredozio cambia ogni due ore e la popolazione vive un’eccitante esperienza. Per venire incontro ai bisogni della povera gente Corbari impone alla banca locale di distribuire sussidi alle famiglie più disagiate.
Però la prolungata occupazione del paese, senza che venga spostata la base di Cà Morelli, accresce la probabilità che i partigiani vengano localizzati e conseguentemente attaccati di sorpresa.
Di ciò si rendono conto i compagni di Faenza, i quali, a più riprese, invitano la banda ad abbandonare la zona. Latori di questi pressanti messaggi, disgiuntamente, sono Mario Badiali e Quinto Bartoli. I partigiani non ascoltano consigli. Forse non si rendono conto che gli errori in guerra hanno un peso e delle conseguenze più gravi che in tempo di pace. Infatti la mattina del 22 gennaio, quando comincia ad albeggiare, la base di Cà Morelli viene attaccato di sorpresa, mentre all’interno gli uomini stanno impastando il pane per tutti compagni.
Inizia subito una furibonda sparatoria; i partigiani improvvisano la difesa dall’interno della casa, ma sono presto sopraffatti. Uno muore e un altro è ferito grave; i tedeschi lo giustiziano sul posto, mentre gli altri venti, compresi i feriti in grado di camminare, vengono ammanettati, legati l’un all’altro, spinti al monte della Busca, sul valico della strada per Portico e fatti salire sul camion che li attende. Dopo un periodo di detenzione a Bologna, dove sono sottoposti ad atroci torture, vengono trasferiti a Verona; qui subiscono un sommario processo, poi alcuni sono fucilati dentro il Forte San Leonardo, primo fra tutti Aldo Celli. I superstiti saranno avviati al campo di sterminio di Mauthausen, dal quale di Faenza solo Aldo Ragazzini farà ritorno (4).
Dall’attacco di Cà Morelli si salvarono soltanto la pattuglia di ronda nel paese, Sergio Bandini perché in cammino verso Tredozio, Silvio Corbari, Iris Versari e il partigiano Nobili, perché erano altrove.
Con la distruzione della banda Celli-Corbari, la Resistenza faentina, così promettente a settembre, è frantumata e dispersa. Restano Corbari con altri quattro e il tenente Ferro che cerca, senza successo, di organizzare i resti della formazione originaria delle Case Grandi.
4 Altri tre partigiani di Tredozio ebbero la fortuna di sopravvivere all’inferno di Mauthausen.
Mario Badiali e Natale Valla si pongono l’obiettivo di ricostituire il movimento su basi unitarie nuove. Coll’intento di ottenere il massimo di adesioni convocano una riunione che si svolge l’8 febbraio in città e di partecipa anche Corbari. Si tratta di organizzare un battaglione sul modello delle Brigate Garibaldi, di orientamento comunista, che stanno sorgendo in tutta l’Italia occupata. Ancora una volta la zona per il concentramento è quella della Samoggia. Al comando militare viene proposto Corbari e i compiti politici vengono affidati agli stessi Badiali e Valla. Raggiunto l’accordo si esaminano anche i problemi tattici: i partigiani usciranno dalla città alla spicciolata evitando di farsi notare; le armi, che sono ancora nascoste nel centro abitato, verranno trasportate con un camioncino fino alla Samoggia.
La riunione si conclude dopo una notte di discussioni. Quando cessa il coprifuoco, uno alla volta i cospiratori lasciano il luogo del convegno, ciascuno per portare a termine il compito affidatogli. Corbari è fra gli ultimi ad uscire. Raggiunge il centro e s’avvia lungo Corso Saffi. Sul ponte di ferro che collega la città col Borgo Durbecco incrocia un ufficiale repubblichino e gli scarica addosso la pistola, uccidendolo. La notizia si diffonde rapida. Fascisti e tedeschi si mobilitano per catturare il responsabile. Ricercha inutile: Corbari è sparito.
La reazione delle brigate nere è durissima, vogliono giustiziare dieci antifascisti. Nella lista sono compresi tre conti Ferniani, colpevoli di aver simpatizzato con gli antifascisti durante i quarantacinque giorni di Badoglio e di aver aiutato i “ ribelli “soprattutto nel periodo della loro prima organizzazione. Fra le vittime prescelte vi è anche Francesco Donati, fratello di Riccardo Donati condannato all’ergastolo nel 1929 per aver ucciso in un conflitto a fuoco uno squadrista locale. Francesco, detto Chicon d’Barisan, noto comunista, ha anch’egli scontato diversi anni di carcere.
Solo il pressante intervento del Vescovo, monsignor Battaglia, costringe i fascisti a rivedere il loro progetto. L’autorevole voce ecclesiastica però è ascoltata solo in parte. La notte stessa, è il 9 febbraio 1944, le brigate nere, col viso coperto si recano in casa di Pietro Violani, appartenente a una nota famiglia della borghesia, di tendenze repubblicane, impiegato comunale. Poiché il portiere dello stabile rifiuta di aprire la porta di accesso alle scale, i militi infrangono i vetri della guardiola e salgono all’appartamento. Inutile risulta il tentativo del Violani di sottrarsi alla cattura rifugiandosi in casa di un vicino: anche lì viene scovato e trascinato via. Trasportato poi verso Brisighella è abbattuto a raffiche di mitra. Il corpo è gettato nel canale e sarà ritrovato cinque giorni dopo nella chiusa al Mulino del Portello. Il giorno 4 “ Il Resto del Carlino “dà la notizia nel seguente modo: “ Efferato delitto scoperto a Faenza. Il cadavere di un impiegato comunale tratto da un canale. La vittima fu rapita notti or sono “.
Il giorno 16 sempre “ Il Resto del Carlino “reca altra notizia scrivendo: “ Il Tribunale Militare straordinario, nominato e convocato a Faenza, ha giudicato i seguenti pregiudicati, responsabili di gravissimi reati:
Marangoni Armando di Federico, di anni 35, residente a Faenza, condannato alla pena capitale;
Rossi Silvio fu Giuseppe, di anni 54, residente a Faenza in parrocchia Sant’Andrea, Condannato alla pena capitale;
Cani Romolo di Ercole, di anni 41, residente a Faenza, condannato alla pena capitale;
Casadei Mario di Carlo, di anni 36, residente a Faenza in via Ponterosso 45, condannato a 24 anni di reclusione e a sei mesi di vigilanza speciale;
Bezzi Edgardo di Primo, di anni 36, residente a Faenza, condannato a 30 anni di reclusione.
Le sentenze di pena capitale mediante fucilazione alla schiena sono state eseguite in una località periferica. I conforti religiosi ai condannati sono stati resi da un cappellano militare “.
Il cinismo del cronista è pari alla ferocia dei fascisti. Si parla di “ Tribunale Militare Straordinario “, nominato e convocato a Faenza… Nominato da chi? E chi è stato a convocarlo? Si è trattato invece di un atroce triplice assassinio consumato a freddo dalle brigate nere, le quali prima hanno catturato di vittime, poi nella notte fra il 10 e l’11 febbraio si sono autonominate giudici, mettendo in atto la farsa di un processo nelle cantine di Palazzo Laderchi, infine, ultimo atto di una macabra commedia, si sono trasformate in plotone di esecuzione.
I partigiani che avevano partecipato alla riunione dell’8 febbraio, solo in pochi sono fuori dell’abitato, la maggioranza è ancora dentro le mura, mentre su tutti i cittadini regna il terrore. I compagni attribuiscono a Corbari la colpa di tutto e gli tolgono la fiducia. Della progettata formazione non si fa più nulla.
Nessuno si sente sicuro, chiunque e in qualsiasi momento può essere arrestato e ucciso.
Ormai in città domina la delinquenza: le brigate nere sono composte delle peggiori canaglie. Basta un saluto mancato o lo sguardo non sorridente per vedersi affrontare con un “ perché mi guardi brutto? “ben sapendo che ciò può essere l’inizio della fine.
È in questo clima che viene letto sui muri della città il decreto contro coloro che non si sono presentati alla chiamata alle armi (5).
5 In data 18 febbraio 1944 – XXII, il Duce della Repubblica Sociale Italiana, Capo del Governo, sentito il Consiglio dei Ministri, ha emanato il seguente decreto:
Art. 1, – Gli iscritti di leva arruolati ed i militari in congedo che, durante lo stato di guerra, e senza giustificato motivo, non si presenteranno alle armi nei tre giorni successivi a quello prefisso, saranno considerati disertori di fronte al nemico ai sensi dell’art. 144 C.P.M.G. e puniti con la morte mediante fucilazione al petto.
Art. 2, – La stessa pena verrà applicata anche ai militari delle classi 1923, 1924, 1925 che non hanno risposto alla recente chiamata o che dopo aver risposto, si sono allontanati arbitrariamente dal reparto.
Art. 3, – I militari di cui all’articolo precedente, andranno tuttavia esenti da pena e non saranno sottoposti a procedimento penale se regolarizzeranno la loro posizione, presentandosi alle armi entro il termine di quindici giorni decorrenti dalla data del presente decreto.
Art. 4, – La stessa pena verrà applicata ai militari che, essendo in servizio alle armi, si allontaneranno senza autorizzazione del reparto restando assenti per tre giorni, nonché ai militari che, essendo in servizio alle armi e trovandosi legittimamente assenti, non si presenteranno senza giustificato motivo nei giorni successivi a quello prefissato.
Art. 5, – La pena di morte inflitta per i reati di cui gli articoli precedenti, deve essere eseguita, se possibile, nel luogo stesso della cattura del disertore o nella località della sua abituale dimora.
Art. 6, – La competenza a conoscere i reati di cui agli articoli 1 e 2 del presente decreto, spetta ai Tribunali Militari.
Art. 7, – È abrogata ogni altra disposizione in contrasto con il presente decreto.
Art. 8, – Il presente decreto sarà pubblicato nella “ Gazzetta Ufficiale “ed è inserito, munito del sigillo dello Stato, nella raccolta ufficiale delle leggi e dei decreti, ed entra immediatamente in vigore.
Febbraio è il mese che registra la maggiore depressione della Resistenza Faentina; segna anche la fine dello «stadio ribellistico» e l’inizio di un periodo di lotta inquadrata in un contesto generale e nazionale. Il tempo che si chiude ha avuto l’indubbio merito di aver indicato la via del combattimento alle giovani generazioni; ha acceso speranze, mobilitato coscienze e ha lasciato dietro di sé un patrimonio di sacrifici e di sangue.
Ammesso però anche in evidenza la fragilità dei primi gruppi, dotati di armamento inadatto alla guerriglia, tenuti insieme da un’organizzazione approssimativa, guidati da una visione politica non corrispondente alle reali dimensioni della lotta.
Il fatto stesso che la prima formazione si sia sfaldata per ricomporsi in altre comunità, le quali sono state colpite da identico destino nel breve volgere di tempo, ha messo a nudo alcuni fattori, non previsti o insufficientemente valutati dai dirigenti politici e militari del momento.
Questi elementi negativi possono venire e semplificati nel seguente modo:
—- i quadri politici locali non hanno alcuna esperienza di guerriglia e non rivelano qualità sufficienti per esercitare un ruolo di direzione e di orientamento;
—- anche coloro che hanno un passato di milizia politica clandestina non sanno cogliere subito l’importanza del momento storico mobilitando attorno alla Resistenza armata le masse popolari, specialmente quelle contadine;
—- il non aver cercato e curato i collegamenti con l’organizzazione provinciale, ha fatto del movimento locale un compartimento stagno, accentuando i caratteri anarcoidi già insiti nella tradizione popolare della città.
Febbraio è il mese più buio, ma è anche quello che segna l’apertura di una nuova fase della lotta, che non tarderà a dare frutti positivi.
Il Partito Comunista (6) invia a Faenza Bedeschi Lino (Amos), Il quale assume la direzione del Partito in tutta la «Zona 8»: Faenza, Castel Bolognese, Riolo Terme, Casola Valsenio e Brisighella, nonché della «Zona 5», Lugo e Cotignola. Si stabilisce un collegamento continuo con i comitati di questi paesi. Dove mancano le organizzazioni si creano, anche a costo di inviare funzionari da altri luoghi. Contemporaneamente si costruiscono i GAP (Gruppi Azione Patriottica), squadre d’assalto del Partito Comunista. Si crea anche un’efficiente rete di comunicazioni a mezzo di staffette, ragazze fidate, le quali assicurano il trasporto di messaggi, di stampa clandestina, di armi e munizioni, assicurano cioè i collegamenti di tutto il tessuto residenziale locale con quello provinciale e regionale (CLN, CUMER, PCI, 28ª Brigata d’Assalto GAP «Mario Gordini» (7)), e con le formazioni di montagna.
In breve Faenza diventa il centro propulsore, di direzione e di stimolo di tutta l’attività politico-militare. Anche il CLN viene chiamato a svolgere un ruolo di più impegnativo rilievo. I Comitati di Liberazione tuttavia non sempre riescono ad affrontare con la necessaria decisione i temi della lotta di liberazione, perché diversi loro componenti, specialmente nei paesi minori, rappresentano non un partito, ma una corrente di pensiero a titolo personale. Inoltre, qualche volta, affiorano i motivi di contrapposizione della vecchia politica tre fascista.
Man mano che la lotta ai tedeschi e ai fascisti si farà più incisiva e organizzata, anche i rapporti fra i partiti miglioreranno.
A metà marzo entravano in attività i GAP, compiendo azioni di sabotaggio alle linee telefoniche e attacchi ai trasporti nemici; ma si tratta ancora di un periodo di addestramento e di affiatamento. È in aprile che essi cominciano a colpire pesantemente, con assalti in grande stile.
I GAP si compongono di pochi individui scelti fra i più coraggiosi e decisi. La struttura delle squadre varia da luogo a luogo secondo le condizioni ambientali, i rifugi disponibili per occultarsi, le imprese progettate. Hanno cioè un’organizzazione elastica, adattabile alle situazioni che via via si vengono a creare. Col passar del tempo diventeranno sempre più numerosi e agguerriti.
Per dirigere l’azione dei GAP in tutta la zona viene costituito un comitato militare composto da Mario Badiali, Natale Valla e Sesto Liverani. Il coordinamento effettivo è affidato a Badiali. La attività del nuovo organo consiste principalmente nell’incitamento e nell’organizzazione e rifornimento dei mezzi necessari: armi, e dai Comitati di Liberazione.
tabacco, vestiario, scarpe, denaro… messi a disposizione dal PCI
Il Comando operativo dell’impresa spetta sempre al capo GAP. È lui che progetta gli attacchi, ne studia l’esecuzione, discute i particolari dell’assalto coi compagni per non lasciare nulla al caso.
Il 4 aprile segna l’inizio vero e proprio dell’azione eseguita con i metodi della guerriglia che resterà famosa come “ tattica gappista “. Il primo attacco viene portato contro una colonna di carriaggi tedeschi. Vi partecipano quindici uomini e a luogo lungo la strada a Faenza-Modigliana, all’altezza delle Balze. Quando i tedeschi giungono davanti ai partigiani comincia un fuoco violentissimo, accompagnato dal lancio di granate che scoppiano sui carri e fra le bestie. In pochi istanti uomini e animali non dànno più segno di vita. Allora i gappisti balzano sulla strada e raccolgono armi e munizioni. Da questo momento in poi fare bottino diventa la parola d’ordine. Da ogni impresa si deve ricavare materiale più abbondante di quello consumato.
Alla prima azione ne segue un’altra lungo la via Emilia, due chilometri a ovest di Faenza. La tattica è la stessa. Due camion saltano in aria e molti nemici restano sul terreno.
I colpi preparati con cura danno risultati sorprendenti e espongono gli attaccanti a rischi relativi. Questi elementi costituiscono un invito agli uomini perché si impegnino in operazioni di maggiore portata bellica.
Per i GAP è chiaro che il successo dipende da una serie di fattori; alcuni possono sembrare di poco rilievo, ma nel contesto generale di una battaglia diventano determinanti al fine di uscirne vincitori. Pertanto le azioni sono studiate con crescente cura: il luogo scelto deve consentire di sfruttare al massimo l’elemento sorpresa e essere idoneo ad uno sganciamento veloce; il numero dei partecipanti sarà limitato al minimo indispensabile; l’attacco sarà rapido e violentissimo. Esso deve creare nel nemico uno sbandamento psichico che impedisca di reagire coscientemente: se per alcuni istanti resterà frastornato, quegli attimi gli saranno fatali.
Solo con l’applicazione rigorosa di questa strategia si spiegano i danni recati al nemico da un numero limitato di combattenti. Infatti si può calcolare che nella zona in esame operarsi, durante i mesi di maggio e giugno, non più di sessanta gappisti; questi bastarono per rendere insicure le strade Faenza-Firenze; Faenza-Modigliana-Tredozio-Marradi, Castelbolognese-Casola Valsenio e anche la via Emilia e il centro di Faenza.
In tutti gli incroci comparvero cartelli con la scritta: «Achtung! Banden Gefahr».
L’azione dei GAP, oltre che infliggere notevoli perdite al nemico in uomini e mezzi, rendergli le strade insicure, non percorribili senza esporsi a micidiali attacchi, assume valore morale e politico rilevante. In primo luogo dimostra che sono finiti i tempi in cui i “ ribelli “sembravano impotenti di fronte alla solita organizzazione militare tedesca, e che le brigate nere non possono più fare da padrone. Gli elementi fascisti che si sono resi responsabili di gravi delitti vengono raggiunti dalla giustizia partigiana. La popolazione intuisce che si avvicina alla resa dei conti. Si ricrea un clima di speranza. Mentre i partigiani combattono, i partiti politici, quello comunista in particolare, s’impegnano con tutte le loro crescenti forze a mobilitare le masse popolari, specialmente quelle contadine. I contadini daranno un contributo essenziale alla lotta di liberazione: nel corso dell’attività essi finiranno per confondersi con i reparti in armi esponendosi, assieme alle proprie famiglie, alle più feroci rappresaglie.
6 la federazione del PCI nel febbraio 1944 era retta da Ennio Cervellati; Dopo un breve periodo di segreteria Sozzi, a fine aprile, la direzione del Partito passava a Gaetano Verdelli che stabiliva la sua sede a Villa San Martino di Lugo. Cervellati assumeva compiti ispettivi.
7 il comando della 28ª Brigata era nella zona di Piangipane.
La banda Corbari, in forma autonoma, si costituisce alla fine del febbraio 1944, con gli elementi superstiti della strage di Ca’ Morelli e con altri che vi si aggiungono. A fine aprile e essa si compone di una decina di elementi e nel momento della massima espansione raggiungere i quarantacinque uomini (8).
Corbari, che aveva appartenuto alla banda della Samoggia senza assumervi parte di rilievo e poi si era unito Marx Emiliani e compagni partecipando all’azione del Camion Fantasma, da ultimo, scioltosi il gruppo per i fatti di Villa Fontana (4 novembre 1943), era approdato alla banda Celli, prendendone il comando. Fino alla strage di Cà Morelli, avvenuta il 22 gennaio 1944, l’attività partigiana di Corbari si intreccia e si confonde col movimento faentino, nelle sue varie componenti. Da febbraio in avanti invece egli non rappresenta più la resistenza della sua città, nè parte di essa, perché taglia i rapporti con amici e compagni e i seguaci gli giungono principalmente dalla provincia di Forlì. I giovani di Faenza che faranno parte della Banda Corbari-Casadei, anche nei mesi di luglio-agosto, nel momento cioè della sua maggiore consistenza, costituiranno una piccola minoranza (10 su 45) (9).
Corbari, con la sua città e anche con Forlì, non avrà collegamenti (10). La sua condotta divenne indipendente e fu spesso in contrasto con quella delle altre formazioni. “ … Silvio Corbari occupa, nella storia partigiana, un posto a sè. Le sue imprese, anche quelle che sul piano militare ebbero peso non rilevante, su quello psicologico furono efficacissime, tanto da creare un alone di leggenda attorno al suo nome. La sua tattica si valse della sorpresa… e si rivestì della beffa… Vestito da militare egli, nell’ora di maggior affollamento, entrò in un bar del centro della città (Faenza) e alla presenza dei fascisti ordino un caffè. Fu riconosciuto dai gerarchi presenti, ma nessuno si mosse. Sorbì con ostentata calma il caffè e mentre osservava l’ambiente vide quadri al muro: le fotografie di Mussolini e di Muti. Si avvicinò alla parete, staccò i quadri, li gettò a terra e se ne andò “ (11).
Anche la stampa clandestina gli dedicava ampio spazio. Le sue imprese venivano ricordate e prontamente diffuse. Lo scrittore Antonio Meluschi al riguardo annotava: …” Si aggira per le vie di Faenza e per le campagne circostanti un giovane, il cui nome è pronunziato con ammirato affetto dagli uni, con profondo terrore dagli altri. «È il patriota Corbari, il beffardo di Faenza» (12).
Egli era il superstite più autorevole del Camion Fantasma, ne raccoglieva gli onori, ne arricchiva la leggenda e ne continuava la tradizione.
In breve la sua fama usciva dal confine della regione e tutto quanto veniva compiuto in Romagna contro fascisti e tedeschi veniva attribuito a lui. « … La fantasia popolare le arricchì (le gesta) ed alcune le diffuse in versioni diverse… Per Corbari non vi erano regole cospirative tali da costringerlo a mantenere l’anonimato sulle proprie azioni; egli conduceva la lotta a viso aperto. Per questo la fantasia popolare lo dette presente anche quando era lontano e a lui vennero attribuite imprese compiute da altri» (13).
La documentazione sull’attività militare della banda Corbari è pressoché inesistente. Egli entra nella storia soprattutto per un discorso collettivo che passa di bocca in bocca e si fa, da cronaca, mito e leggenda.
Molte azioni le compì da solo e ciò è indice del suo carattere. Poteva impegnare la sua audacia in combattimenti che coinvolgessero la formazione, ma questa condotta era estranea alla sua personalità. O era solo o con pochi altri. Sfruttava il fattore sorpresa nei modi più fantasiosi e prediligeva i luoghi che si prestavano ad una rapida divulgazione del fatto e alla beffa del nemico….«Di tali imprese Corbari ne colpì più d’una, tutte concatenate dal filo conduttore… dello scherno. Invita il segretario politico di Faenza ad un colloquio a quattrocchi; entrambi disarmati, in una chiesa di Faenza. Il segretario vi si reca armato e scortato, la chiesa è deserta. Aspetta ma non arriva, aspetta ancora ed infine se ne esce deluso. Al momento di uscire si libera della questura di un vecchietto che tende la mano regalandogli dieci lire.
Quelle dieci lire gli ritornano con un biglietto di ringraziamento di Corbari, che il poco accorto segretario non aveva saputo riconoscere nel mendicante» (14).
«In aprile Corbari, l’Iris Versari e altri setto otto partigiani occupano Modigliana, giungendo in paese improvvisamente in pieno giorno. Uno di essi irrompe al galoppo dalla parte di Tredozio, seminando il panico. Restano un paio d’ore e prelevano soldi dalla banca, poi se ne vanno… La seconda occupazione di Modigliana avvenne una decina di giorni dopo, in stretta collaborazione con gli antifascisti del paese. Questi avevano preparato il terreno. Avevano fatto circolare la voce della progettata occupazione per compiere pesanti rappresaglia nei confronti dei collaborazionisti… I carabinieri impauriti approfittano dell’occasione per fuggire in abiti civili. L’occupazione avvenne la domenica pomeriggio… Corbari e l’Iris Versari alla testa entrarono a Modigliana senza incontrare resistenza perché i carabinieri e i militi se l’erano squagliata. Nella Caserma prelevarono armi e materiale militare e restarono in paese tutto il pomeriggio… Corbari come al solito detto che spettacolo: seduto al bar centrale, mentre il paese era in preda all’orgasmo, sembrava l’uomo più tranquillo del mondo, sceso in piazza per trascorrervi il pomeriggio domenicale. Sorbì la sua bibita con la cannuccia. Verso sera partirono in direzione del Monte Trebbio» (15).
Per l’esattezza, anche questa occupazione, come quella precedente, durò circa due ore, durante le quali i presidi fascisti dei centri vicini vennero mobilitati. Quando le brigate nere giunsero in paese, i partigiani salivano la strada del Trebbio a bordo di un camioncino requisito ad un corriere. I fascisti li inseguirono e li raggiunsero prima del valico. Ne seguì un combattimento e Corbari prese l’automezzo e il bottino.
… «Era naturale che nella terra del Passatore, Emergesse la figura di un partigiano come Corbari» (16).
Una delle imprese più famose compiute da lui è l’uccisione del console Gustavo Marabini, avvenuta il 23 maggio 1944, nei pressi di Predappio. Si trattava di un gerarca che si era macchiato di gravi crimini ordinando rastrellamenti e fucilazioni di renitenti alla chiamata alle armi del governo di Salò.
Corbari, servendosi di intermediari in buona fede, come il conte Zanetti e un parente di Mussolini, fece sapere al Marabini che, stanco della Vita randagia di montagna, pentito di quanto aveva fatto, era disposto a trattare la resa della banda, in risposta all’appello lanciato dai fascisti «agli italiani sbandati, ai fuggiaschi in montagna» che prometteva l’impunità a tutti i «ribelli» che si presentassero spontaneamente, e che si arruolassero nei reparti militari della Repubblica Sociale.
I termini fissati dall’appello scadevano il 25 maggio, mentre incontro fra Corbari e Marabini è convenuto per il 23, in località Mulini, lungo la strada che da Predappio conduce a Rocca San Casciano. Vi partecipano Silvio Corbari, l’Iris Versari e un altro partigiano rimasto anonimo. Sono inoltre presenti i mediatori conte Zanetti e Tullio Mussolini, niporte del Duce. Il Marabini, contrariamente ai patti, si presenta armato e scortato. Corbari non dà rilievo alla cosa e subito avvia la trattativa che si svolge nel migliore dei modi. Il console resta convinto della lealtà di Corbari al punto che non solo garantisce l’impunità per l’intera banda, ma promette a Corbari il comando di un reparto di brigate nere. Per dare maggiore credibilità alle promesse afferma di aver già fissato un incontro a Forlì con un generale tedesco. Non occorre indugiare oltre. Salgono insieme sulla stessa automobile e s’avviano in direzione di Predappio distanziando la scorta. Fatti alcuni chilometri Corbari fredda il fascista. I partigiani scendono dalla macchina e, mentre l’autista terrorizzato prosegue veloce verso la città, essi guadagnano i boschi.
L’episodio è destinato ad aver vasta risonanza e ha tutti i requisiti perché ognuno possa ricamarvi sopra, a piacer suo, i contorni che vuole.
Nonostante la fama raggiunta da Corbari la banda non conoscerà mai lo sviluppo delle altre formazioni di montagna (17).
Questi limiti sono dovuti essenzialmente a due fattori: in rimo luogo la struttura della formazione non è tale da consentire una crescita numerica, in quanto l’attrazione è costituita dalla notorietà del capo, non dall’organizzazione; in secondo luogo la banda, anziché avvisare ad uno sbocco sociale e politico nel dopo liberazione, sembra piuttosto una romantica reincarnazione in chiave moderna delle lotte risorgimentali.
L’autonomia di Corbari dalle organizzazioni umanitarie della Resistenza in generale e da quella faentina in particolare viene attribuita ad alcuni alle insufficienze dei partiti del CLN. Ma se le lamentate deficienze sono reali ciò non basta per spiegare la posizione di Corbari. Egli infatti respinse ogni collegamento Durante l’occupazione di Tredozio e non restò fedele agli accordi raggiunti l’8 febbraio 1944 nelle riunioni di città (18).
Ad inasprire i rapporti coi partigiani faentini contribuì anche la sottrazione che Corbari fece di un certo numero di armi date in consegna a un contadino dopo il lancio della Pietramora.
Di Faenza, soltanto il gruppo ORI, e in particolare il Dr. Virgilio Neri, riesce a mantenere qualche legame. È proprio attraverso questi contatti che Radio Zella ottiene dagli alleati un aviolancio per la banda Corbari.
Il lancio avviene la notte di lunedì 17 luglio, sul monte Lavane, a quota 1241.
Il Lavane si eleva a ridosso della Linea Gotica; il dispositivo di difesa apprestato dai tedeschi, in quel punto, si articolata a nord del massiccio montano e segue la strada che da Marradi conduce a San Benedetto in Alpe, passando per Gamogna, perciò nella zona sono disseminate notevoli forze nemiche e un aviolancio non può passare inosservato. Si tratta infatti di un’operazione complessa che richiede segnalazioni luminose a terra e dal velivolo, il quale si abbasserà più e più volte per sganciare il paracadute.
In simili condizioni le regole della guerriglia esigono che l’impresa venga condotta col massimo della celerità, che il materiale ricevuto venga trasportato lontano dalla pista di lancio e che gli uomini, anch’essi, si allontanino. Un comportamento diverso significa dover sostenere un immediato attacco del nemico, il quale, conoscendo l’armamento di cui dispongono i partigiani, non farà economia di mezzi.
Due giorni dopo il lancio la banda si trovava ancora sul posto e le armi e il materiale eccedenti la dotazione dei combattenti erano accatastati dentro la capanna del Lavane, a quota 1165.
I tedeschi durante la notte avevano circondato la zona e avanzavano con cautela, saggiando le forze partigiane e costringendole in un’area sempre più ristretta, verso la cima del monte. Per tutta la mattina si combattè senza però che gli scontri assumessero particolare violenza, ma nelle prime ore del pomeriggio i nemici passarono all’attacco con decisione. Resistere ulteriormente non avrebbe avuto senso, anche perché buona parte degli uomini erano sbandati nel bosco, che in quel momento veniva avvolto da un banco di nebbia. Solo Casadei con pochi altri era rimasto indietro per distruggere il materiale raccolto nella capanna. Egli fece appena in tempo ad accendere la miccia che la truppa nemica gli era alle spalle. Si apriva un varco lanciando bombe a mano e sparando a ventaglio, poi un enorme boato e le fiamme e le schegge investirono i tedeschi che si erano radunati nello spiazzo antistante (19).
La banda si ricostituisce a San Valentino, dove i componenti giungono alla spicciolata.
Corbari, fin dall’aprile, aveva imposto ai suoi seguaci l’apoliticità. Si trattava di una misura assurda, calata su dei giovani che avevano già sperimentato il divieto fascista di “ discutere di politica “ e che invece, imboccando la via della lotta armata, avevano fatto una irreversibile scelta politica. La pretesa apoliticità si ripercuotevano negativamente sulla condotta dei singoli all’interno della banda, dove il dibattito sarebbe stato il mezzo migliore per dare un significato e una prospettiva alla decisione che ognuno aveva preso al momento di entrare nella clandestinità: Il mutismo politico impediva il controllo democratico sulla maturità dei combattenti e favoriva l’infiltrazione delle spie e degli agenti provocatori. A queste infiltrazioni la banda pagherà una pesante contributo.
Di fatto Corbari non permetteva ai partigiani quello che egli stesso respingeva; infatti in una sua lettera affermava: «…oggi… mi sento italiano e da buon italiano quale sono ora sento soltanto il bisogno di lottare contro il comune nemico…» (20).
La Resistenza al contrario era battaglia politica, l’alba della democrazia, e il confronto delle idee alimentava la lotta.
Quando il CLN e tutte le organizzazioni della resistenza si impegnarono per la salvaguardia del raccolto del grano dalla progettata rapina tedesca, Corbari se volle distinguere. Si trattava di impedire la trebbiatura fino a quando i tedeschi fossero stati in grado di trasportare il grano. Successivamente, allorché fascisti e tedeschi non fossero più in condizione di controllare la trebbiatura, si sarebbe battuto e occultato il prodotto. Questa direttiva venne rispettata dovunque tranne che nel comune di Modigliana. Intervennero allora i GAP incendiando una trebbiatrice e facendo opera di convincimento fra i contadini.
Quest’azione venne interpretata da Corbari che collegava il fatto con un altro avvenimento: un gruppo di suoi partigiani di Modigliana si era staccato da lui per entrare nel Distaccamento GAP Celso Strocchi. Inoltre, dopo la battaglia del Lavane, un ragazzo, di 13 anni, di nome Antonio, facente parte della Banda Corbari, sbandatosi nei pressi del monte del Tesoro in preda ad evidente choc, era stato disarmato dai Gap, e rimandato a Corbari come un biglietto nel quale si dichiaravano le ragioni del provvedimento insieme all’impegno di riconsegnare l’arma qualora fosse richiesta.
La risposta a questa somma di fatti non tarda ad arrivare.. Una trentina di uomini al comando di Adriano Casadei varca l’Acereta, raggiunge il monte Panigheto, a quota 662, e tende un’imboscata ai Gappisti. Il CLN di Modigliana, informato della decisione di Corbari, raggiunge la formazione gappista per scongiurarla di abbandonare la zona. Palì invece, localizzato l’esatto luogo dell’imboscata, si reca da solo incontro a Casadei, lo invita a riporre i rancori, a combattere insieme, e i due comandanti, anziché affrontarsi, si abbracciano.
Le due formazioni fraternizzano e per alcuni giorni fanno vita in comune. Casadei resta colpito dallo spirito che regna fra i gappisti, dai rapporti umani e la solidarietà all’interno della formazione, dalla rete di collegamenti con degli organi di direzione della resistenza, con i partiti politici e con la popolazione.
Valutate queste cose, egli consolida alle sue idee circa la necessità di riformare la banda di Corbari. Egli sa che per collegarsi in modo organico al movimento resistenziale dovrà superare forti ostacoli. Non vorrebbe urtare Corbari, al quale è molto affezionato, ma si rende conto che la vera lotta e quella unitaria, alla quale è doveroso uniformarsi.
Rinvia alla base la squadra, che fa latrice di una lunga lettera per Corbari e insieme a due partigiani resta coi gappisti, chiedendo di partecipare alle azioni di guerriglia. Nella missiva, fra l’altro, chiede che Corbari si incontri col comando GAP, per superare le divergenze e instaurare un rapporto diverso.
Dopo alcuni giorni d’attesa arriva la risposta (21). In allegato, per Casadei, c’è però un altro scritto, redatto in toni più conciliativi.
Di tutto quanto è accaduto erano stati informati minuziosamente il comando di zona e la stessa 28.a Brigata Garibaldi nella persona di Bulow. Mario Badiali era giunto sul posto. Dopo aver discusso la questione fra loro, Palì e Badiali decidono di recarsi da Corbari, che si trova a Pian di Lago, sul monte Pompegno. È un giorno di pioggia e il tragitto lungo faticoso. Raggiungono Corbari che già annotta.
L’auspicato confronto a un esito sconcertante: i motivi della controversia sono rapidamente risolti, lasciando uomini e armi dove sono, mentre la collaborazione che preme a tutti, a Casadei in particolare, viene elusa. Quando Palì e Badiali rientrano alla loro base trovano le disposizioni del Corpo Volontari della Libertà (22).
Poiché la direttiva della Delegazione Provinciale del Corpo Volontari della Libertà giungeva a incontro avvenuto, non restava che relazionare sull’accaduto (23).
L’incontro di Pian di Lago era stato interrotto dal Corbari il quale assertiva di doversi allontanare con urgenza per preparare un’ «azione che avrebbe sbalordito tutti». Al suo ritorno avrebbe ripreso il dialogo.
L’impresa a cui alludeva il Corbari si riferiva alla liberazione dal carcere di Forlì di Tonino Spazzoli, catturato in seguito alla scoperta di Radio Zella avvenuta il 28 luglio. Lasciato il Pompegno, Silvio Corbari Iris Versari, Arturo Spazzoli (fratello del prigioniero) raggiungono San Valentino e fissano la base nel podere Cornio, in casa del contadino Pompignoli. Casadei li raggiunge qualche giorno dopo. La banda resta a Pian di Lago al comando di Romeo Corbari.
Da San Valentino scendendo a Forlì per studiare sul posto il piano d’attacco alle carceri. Naturalmente cercano anche di ottenere informazioni all’interno del penitenziario. I giorni passano senza che il progetto trovi elementi di realizzazione. La sera del 17, Corbari e Arturo Spazzoli rientrano a Cornio scoraggiati, e Tonino è sempre nelle mani della Gestapo.
Nella zona di San Valentino circolano due individui, certi Franco Rossi e Antonio Benenati, entrambi dal passato equivoco. Il Rossi ha già fatto parte della banda Corbari, dalla quale si è allontanato perché redarguito, quando venne scoperto a rubare. I due incontrano Casadei a cui raccontano una confusa storia di evasione dal carcere di Castrocaro (l’evasione, come si saprà in seguito, era stata inventata così come l’arresto) ed ora si trovano alla macchia perché ricercati. Il Rossi manifesta il desiderio di incontrare Corbari. Casadei non ha gradito la presenza dei due e non addice dove il Comandante si trovi, ma il Rossi raggiunge egualmente Cornio e si incontra con Corbari. La spia viene accolta senza alcun sospetto dal campo, il quale accetta anche un portasigarette il regalo. Dopo un breve colloquio i visitatori se ne vanno. Solo allora sorgono perplessità. Interrogati i contadini dei dintorni, si prendono particolari che rafforzano i dubbi. Essendo ormai impossibile raggiungere le spie sarebbe prudente abbandonare la base di Cornio, ma Corbari e Spazzoli sono stanchi, rinviano la decisione al giorno dopo. La notte, le sentinelle messiealla porta si allontanano.
Alle cinque del mattino il colono si alza per cominciare la sua giornata di lavoro, ma appena apre la porta, si trova la canna di un mitra contro il petto. L’abitazione è circondata. Tedeschi e fascisti, guidati dal Rossi, sono giunti silenziosi nel buio. I soldati penetrano nella casa. Però, accolti dalle raffiche dei partigiani, sono costretti a ritornare sull’aia. Entrano allora in azione le armi appostate dintorno: anche un mortaio scarica granate sul tetto del casolare. È la fine. La Versari si toglie la vita, Corbari salta dalla finestra e corre verso il bosco più vicino, Casadei e Spazzoli fuggono dalla porta della stalla. Arturo sbaglia direzione e si trova i tedeschi in faccia che lo crivellaro di colpi. Corbari e Casadei guadagnano un centinaio di metri e si rifugiano nella macchia. Sono salvi, oramai. Corbari però, mentre cammina al bordo di un precipizio, mette un piede in fallo e cade nel burrone sottostante. Casadei lo soccorre. Lo trascina fra i cespugli, gli resta vicino anche quando sopraggiungono i nemici, e si lascia catturare.
Arturo Spazzoli e l’Iris Versari, morti, Silvio Corbari, morente, vengono caricati sopra una slitta (treggia) trascinata da buoi; sono portati in cima al monte Trebbio, dove i camion li attendono; Adriano Casadei, legato, segue i compagni su per la salita. Il Rossi cammina di fianco e schernisce tutti, il vivo, il morente, i morti.
Giunti a Castrocaro anche i cadaveri vengono impiccati sulla pubblica piazza. Nel pomeriggio le vittime sono trasferite a Forlì ed appese ai lampioni di piazza Saffi: Iris Versari a fianco di Silvio Corbari, Arturo Spazzoli a fianco di Adriano Casadei… «a ludibrio dei carnefici e a gloria della gioventù d’Italia. Li seppelliranno, ultimo oltraggio, con le mani legate la corda al collo» (24).
Il comando della banda passa allora a Romeo Corbari. La formazione si trasferisce nella zona del monte del Tesoro; anche qui viene raggiunta da spie e da agenti provocatori, ma non si lascia giocare, perché l’esperienza l’ha fatta più guardinga. Con la morte di Silvio Corbari la formazione ha perso buona parte della carica emotiva che le aveva conferito il capo, tuttavia continua a combattere fino al congiungimento con gli alleati, con i quali collabora per la liberazione delle zone che ha percorso durante i mesi della clandestinità.
8 Drei Ebro – Testimonianza registrata.
9 Idem.
10 “ Egli agì in modo autonomo da qualsiasi organizzazione politica e comando militare “: S. FLAMIGNI – L. MARZOCCHI, Resistenza in Romagna, Milano, 1969.
11 S. FLAMIGNI – L. MARZOCCHI, La Resistenza in Romagna, op. cit.
12 A. MELUSCHI, La Comune di Imola, 1944.
13 S. FLAMIGNI – L. MARZOCCHI, op. cit.
14 A. MELUSCHI, Epopea Partigiana, Bologna 1947.
15 S. FLAMIGNI – MARZOCCHI, op. cit.
16 S. FLAMIGNI – L. MARZOCCHI, op. cit.
17 “ La banda intanto era cresciuta. Mancava tuttavia di un piano strategico, andava avanti alla giornata. Soprattutto spiccava l’azione individuale del capo, il quale, per il suo temperamento, era capace di compiere le azioni più rischiose e i colpi di mano più disparati, Impegnandosi personalmente e con pochi altri. Dedicata però poco tempo ed energie alla costruzione di nuove squadre e di stanziamenti partigiani. La banda non raggiunse mai un numero di effettivi superiore a un distaccamento. Nel mese di giugno contava infatti una trentina di uomini. Non vi era istruzione sull’uso delle armi, né teoria e addestramento militare. L’arrivo di Adriano Casadei portò un certo contributo organizzativo. Le squadre erano disposte in vari casi e i problemi del vettovagliamento venivano risolti sul posto con l’aiuto dei contadini. I fatti logistici non costituirono mai un problema di rilievo dato il numero non rilevante di effettivi “. S. FLAMIGNI – L. MARZOCCHI, op. cit.
18 “ Il caso più tipico è quello del gruppo Corbari, e dirigenti del quale giunsero persino a non considerare le sollecitazioni politiche per un coordinamento della lotta avanzando argomentazioni autonomistiche “ L. BERGONZINI, La lotta armata. “ Per quanto si ritiene alla banda Corbari ci rendevano conto che la sua condotta autonoma non favoriva il coordinamento della lotta, e che anzi, poteva recare seiri danni all’organizzazione, perché non era possibile prevedere cosa avrebbe potuto fare. Tentammo dei collegamenti tramite Palì, il quale operava nelle zone vicine a quelle dove abitualmente si trovava Corbari. Altri tentativi li facemmo attraverso i compagni di Forlì. Infatti il Corbari operava esclusivamente in questa provincia. Sapevamo anche che perdurando nella sua linea di condotta, la banda avrebbe corso seri pericoli. Per questo cercammo di convincerlo ad allinearsi con le altre organizzazioni della resistenza, ma non riuscimmo a superare le divergenze in nessuno dei due tentativi “. BEDESCHI LINO (AMOS) – Testimonianza scritta.
19 “ IV Settore Servizio Informazioni – 24 luglio 1944.
Relazione circa l’avvenuto lancio a favore della banda autonoma di Corbari.
Lunedì 17 luglio 1944 la Banda Autonoma di Corbari ha ricevuto un lancio di armi, munizioni, vestiario, ecc., ecc. (complessivamente ql. 40 di materiale sono stati lanciati). Il materiale è stato recuperato e anzi, nonostante che a tutti i componenti la Banda fosse distribuita un’arma automatica avanzavano: 1) 45 Sten; 2) 4 mitra, 3) 2 mitragliatori di tipo Breda, 4) 1 Levis, 5) ql. 8 di esplosivo. Il Corbari rimaneva nella zona di lancio fino a mercoledì, giorno in cui veniva accolto e attaccato da 2000 soldati delle SS (esse esse) italiane e germaniche. Il combattimento durò otto ore. Il Corbari durante il combattimento getta le armi e perfino il portafoglio con 60.000 liquide e scappa in compagnia della signorina Liris (sic) che tiene alle sue dipendenze lasciando gli uomini impegnati in combattimento.
Nonostante il disordine nato da questo fatto gli uomini combattevano con abbastanza tenacia tanto che la SS ha lasciato in campo numerosi morti (pare siano 250 fra morti e feriti) mentre le perdite partigiane ammontano a due morti e un ferito lasciato in mano al nemico.
Il materiale in abbondanza e l’esplosivo era stato messo in una capanna e prima di abbandonare la posizione è stato fatto saltare. Sono andati perduti: 1) Sten n. 45, 2) Mitra n. 4, 3) Mitragliatrici n. 3, 4) esplosivi ql. 8, 5) una grande quantità di bombe a mano e vari indumenti.
Da questi elementi sbandati si è appreso che in senso alla Banda regna un disordine caotico in quanto tutti si atteggiano a comandanti e il Corbari stesso ha dovuto fare a pugni più volte anche con suo fratello. Molti elementi alle sue dipendenze non sapevano e altri non sanno ancora che esista altra organizzazione Politica e Militare perché da lui tenuti all’oscuro. Il Corbari poi sta svolgendo attività contraria al nostro P.
Il responsabile servizio informazioni
E. Student “
Istituto Storico Resistenza Ravenna, XLI g. 7
20 “ Caro amico (se tale sei),
mi dici che il Comitato di Faenza non ha più mie notizie, ti faccio noto che sono io stesso a dirti che non sapevo che esistesse un comitato.
Tuttavia se vi è una organizzazione perfetta (come dici) io sono pronto a collaborare con tutti i partiti antifascisti, con tutti i buoni italiani che oggi sentono il dovere di impugnare le armi e di finirla con le chiacchiere.
In quanto poi alle mie idee politiche, ti dirò che oggi quanto mai mi sento italiano e da buon Italiano quali sono ora sento soltanto il bisogno di lottare contro il comune nemico che è il Tedesco e il Fascista.
Domani eliminate queste due razze, il fascismo e il nazismo, lotterò per il mio ideale, “il comunismo”.
Silvio Corbari
Seguì immediatamente il latore che ti porterà da me. Silvio “.
Istituto storico resistenza Ravenna, CXVII.f.I
21 “Esercito di Liberazione Nazionale – Btg. Corbari
Al Comando del 4° Settore Zona 8
Le faccio noto che, à riguardo dell’appuntamento, non posso muovermi per ragioni superiori.
In quanto (alle ar)mi da lei prese, non sono un(a sola, ma) bensì due (2).
Conclusione. I due (…) ha lei (uno del patriota Antonio e l’altro di un certo Elvio di Modigliana) lei devi fare in modo di farmeli avere al più presto.
In quanto ai quattro (4) uomini di Modigliana (Fratelli Farina, Giovanni, Romeo) se sapesse dove trovarli, le dica a mio nome se non volessero più fare parte dell’Esercito di Liberazione al più presto mi rendino le armi altrimenti sono costretto a (prenderle) provvedimenti à loro carico.
Avrei molto piacere di incontrarmi con lei per parlare di diverse cose. Sono disposto a collaborare con tutti coloro che oggi si sentono veri italiani in fede mi f(ir)mo.
Silvio Corbari “
1 agosto 1944.
Istituto Storico Resistenza Ravenna, C:XVII.h.1.
22 “ Corpo Volontari della Libertà
Aderente al C.d.L.N.
w. 9/8/ 1944
Oggetto: Pratica Corbari.
Al comandante della GAP della zona di Faenza.
Dal Comando della 28ª brigata Gap “ Mario Gordini “riceviamo la pratica relativa all’affare Corbari.
Esaminate le relazioni del Comandante GAP 4° Settore e la lettera dello stesso Corbari consigliamo:
—- che si cerchi di promuovere un incontro del Corbari con un elemento politico del Partito Comunista e con la presenza del comandante GAP del 4° Settore al fine di chiarire definitivamente la posizione del Corbari stesso.
—- eventualmente avvisate per tale incontro questa Delegazione che potrà inviare un proprio rappresentante.
I consigli che potremmo darvi per il momento sono questi:
1 – per lo sten oggetto della discussione, al Corbari si potrebbe precisare che è in mano a dei combattenti che l’adoperano molto efficacemente per la lotta contro i tedeschi e che quindi siccome le armi sono di chi le adopera, al di sopra di ogni ambizione personale di comando, egli il Corbari dovrebbe essere lieto di aver armato un Patriota che veramente combatte, se pure non della sua formazione.
2 – che alcuni suoi elementi sono stati inquadrati nelle formazioni della Brigata GAP “ Mario Gordini “, formazione prettamente militare che combatte in collaborazione di tutte le Brigate Garibaldine dipendenti da un Comitato Militare Generale organizzato e riconosciuto dal Comando Alleato e dal Governo Italiano. Che detti elementi che prima facevano parte della sua formazione oggi sono veramente inquadrati in un esercito che non è formato né da avventurieri, né da ambiziosi, bensì da patrioti che lottano fraternamente per una causa unica: la liberazione d’Italia.
3 – che il Corbari agisce al di fuori di ogni organismo legale riconosciuto dalla volontà del popolo e dei partiti, senza direttive e senza obiettivi precisi.
Ma tutto ciò sarebbe bene chiarirlo in una conversazione con lo stesso Corbari che potrebbe, a nostro parere, vedere un poco chiaro nella situazione politica e militare dell’Italia occupata.
Indichiamo per un incontro il compagno Amos; con lui potresti prendere accordi altrimenti come già sopra detto avvisateci con un paio di giorni prima e così insieme potremmo esaminare meglio il da farsi.
Fraterni saluti
Delegazione Provinciale
P.S. Per l’avviso scrivete intestando Bulow… “.
23 “ Dalla Zona 89/8/1944
Al Comando 28ª brigata GAP “ Mario Gordini “
Relazione sulla pratica Corbari.
Mercoledì notte, (era il 2 agosto n. d. r.) assieme al responsabile GAP 4° Settore, mi sono recato nella zona montana di San Valentino (era invece Pian di Lago sul Monte Pompegno n.d.r.), ad un incontro con il Corbari, per sistemare la questione delle armi, e per uno scambio generale di vedute.
La questione delle armi, e quella degli uomini di Modigliana è stata felicemente risolta a nostro favore.
Da parte del Corbari, dopo ampia discussione, non c’è stato nessuno impedimento che gli uomini e le armi rimangono dove attualmente si trovano, purché siano dirette contro il comune nemico. (La discussione in verità si svolge soprattutto con Romeo Corbari fratello di Silvio Corbari n.d.r.).
Per quanto riguarda la questione politica, io credo inutile preparare un incontro con un rappresentante responsabile del partito. Secondo me il Corbari non si assoggetterà a nessuna disciplina, egli asserisce essere a contatto con un membro del CLN (Achille Braschi, ex deputato popolare conservatore di cui il Corbari fece il nome durante l’incontro, n.d.r.), ma credo non sia vero, perché le sue direttive sono una antitesi delle nostre, a mio parere egli è un presuntuoso che critica tutto ciò che fanno gli altri, convinto che quel poco di lavoro fatto bene ci sia, perché fatto unicamente da lui.
Egli dice di essere italiano, per questo si sente di lottare contro il tedesco e il fascista senza ideologie politiche, ma assieme alla sua donna, domina come un piccolo ras quella cinquantina di uomini che ha sotto di lui, credo non sia disposto ad accettare nessun legame sia politico che militare, e che non possa, causa il suo carattere e la sua poca modestia, essere idoneo a militare nelle file di un partito quale il Comunista.
Saluti.Mario”
Istituto Storico Resistenza Ravenna, C.XLI h. 15.
24 E. GIUNCHI, Gesta della Banda Corbari-Casadei, Torino 1945.
Nel mese di settembre del 1943 sette giovani di Ravenna, eredi diretti del romanticismo mazziniano, in bicicletta, lasciano la città diretti a sud onde incontrare gli eserciti alleati e con loro combattere per la liberazione dell’Italia.
Lungo il cammino incrociavano colonne di profughi, in movimento verso il nord colla speranza di sottrarsi ai disagi della guerra che avanzava. Giunti a Bari i giovani venivano sballottati da un ufficio all’altro senza ottenere alcun arruolamento. Visti inutili i tentativi compiuti nel territorio dell’VIII Armata inglese, si trasferivano a Napoli, occupata dalla V Armata americana. Entravano in contatto col dottor Raimondo Craveri e tramite suo potevano ottenere un incontro col comando statunitense della OSS, che si occupava dei rapporti con i territori occupati dai tedeschi. Le proposte che gli americani facevano erano di ritornare nei paesi di origine per svolgere compiti speciali. Intanto ai ravennati si erano aggiunti patrioti provenienti da altre regioni e il gruppo raggiungeva la ventina. La trattativa degli italiani con gli alleati si svolgeva globalmente e per dare maggiore forza alla contrattazione il gruppo pensò di costituirsi in organizzazione regolare. Nasceva così l’ORI. Tale sigla sarà poi conservata dalla missione «Radio Zella» nei suoi rapporti con tutti gli organismi della Resistenza dipendenti dal CLN.
La missione era una filiazione dell’ «Office of Strategic Service», meglio conosciuto come OSS.
L’accordo stipulato dall’ORI con degli americani concerneva l’impiego di trasmettere informazione di carattere militare, in cambio di aiuti in armi ed equipaggiamento per le bande partigiane che operavano nei territori occupati dai tedeschi, senza preclusioni politiche. L’impegno sarà mantenuto dai contraenti.
Dopo un periodo di addestramento svoltosi a Pozzuoli la missione «Radio Zella», composta da Antonio Farneti di Ravenna, col nome di Roberti, capo missione, da Andrea Zanco, sardo, marconista (e da un terzo, romagnolo, il quale appena rimesso piede nella sua terra divenne uccell di bosco), giunse in Romagna.
Partita da Brindisi col sommergibile Platino, Radio Zella sbarcata la notte del 22 febbraio 1944 alla foce del Po di Goro. Dal luogo di sbarco Roberti e Zanco (quest’ultimo verrà soprannominato Sapatagnaz, a causa del suo naso schiacciato), dopo indescrivibili peripezie, riusciranno a raggiungere Ravenna e a trasportarvi tutto il materiale della spedizione. Qui giunti Farneti prendeva contatto con i circoli repubblicani, i quali pensarono, anziché utilizzare direttamente la missione, di dirottarla in quel di Lugo, appoggiandola all’amico rag. Blosi, anch’egli di tendenza repubblicana. A lungo gli ospiti del Blosi riusciranno a mettere in funzione la radio trasmittente e a comunicare con la base alleata. Il primo messaggio dice: «Causa grave errore sbarco oltre foce Po e difficoltà trasporto materiale impossibilità di comunicare prima d’ora».
È il 28 marzo 1944.
Da questa base provvisoria, tramite sempre il rag. Blosi, Roberti viene a contatto col dr. Virgilio Neri. L’incontro segna l’avvio di un periodo di fecondità attività. La radio viene trasferita a Rivalta nella Villa dello stesso Neri, a pochi chilometri da Faenza. È da questa sede che si distenderà tutta la rete della missione.
Siamo ai primi d’aprile. L’ORI si rafforza. Vi entrano Bruno Neri, noto calciatore della Nazionale, Vittorio Berlenghi, Vincenzo Lega e Carlo Maltoni di Faenza, Nonché i fratelli Spazzoli, Antonio e Arturo, di Forlì. Gli uomini sopra elencati costituiscono il nucleo centrale dell’organizzazione, i collaboratori diretti di Antonio Farneti: con essi però lavoreranno tutti gli organismi della Resistenza guidata dal CLN. Di particolare rilievo il contributo dei SIM (Servizio Informazioni Militari) facente capo ai GAP e al PCI. Questa cooperazione intesa fra la Resistenza e la missione alleata manifesta chiaramente lo spirito aperto col quale veniva condotta la lotta di liberazione della nostra terra.
Tutti i patrioti che agivano nei vari organi della Resistenza sapevano che esisteva la missione Zella, solo pochi però erano in rapporto con gli uomini che ne facevano parte. Un’aureola di mistero ha sempre circondato la sua ubicazione e il suo lavoro.
Un’attività intensissima si sviluppava ad opera del gruppo OSS. In centoventi giorni esso trasmetteva 106 messaggi e ne riceveva 66. Se si pensa che per ogni trasmissione, fra stesura, traduzioni, messa in codice, controllo e funzionamento radio, occorrevano circa quattr’ore di lavoro, apparirà chiaro l’impegno della missione. Se poi si scorre il contenuto dei dispacci, ci si accorge che ognuno di essi era il frutto di una attenta osservazione dei fatti, dei luoghi, dei comportamenti della popolazione nei diversi centri dell’Emilia-Romagna, e soprattutto dei distaccamenti e delle installazioni militari tedesche. Ciò vuol dire anche che capacità e possibilità di indagine erano ramificate e a questo indubbiamente contribuivano le organizzazioni della Resistenza.
L’accordo con gli americani era di trasmettere informazioni militari, ma gli uomini del gruppo OSS non potevano restare insensibili ai fatti che ferivano il corpo sociale ed economico del nostro paese, come i bombardamenti indiscriminati. Il dispaccio n. 11 del 25 aprile ne è eloquente testimonianza, pur nello scarno linguaggio telegrafico: «I bombardamenti limitati ad obiettivi militari vengono compresi ed ammirati viceversa ottengono effetto contrario».
Radio Zella non si limita ad adempiere ai compiti istituzionali di trasmettere notizie, ma si occupa di un’altra serie di problemi collaterali, come quello di condurre in salvo un gruppo di prigionieri evasi da campi di concentramento tedeschi. A tale riguardo un agente della missione si reca oltre le linee per concordare direttamente con gli alleati il trasferimento al sud del gruppo. Convenuti i dettagli dell’operazione, dalla base alleata giunge a Roberti il seguente dispaccio:
«Messaggio n. 8. – 27 aprile
Quattrocento metri nord fiume Tenna fra ore dieci e trenta et una segnalate lettera R come Roma tre volte ad intervallo di tre secondi ripetuta ogni cinque minuti x».
Il tempo disponibile per informare gli interessati non era sufficiente, pertanto Roberti rispondeva:
«Messaggio n. 15 – 2 Maggio
Impossibilitati comunicare in tempo utile vostro messaggio a Cat trenta angolo americani fra cui cinque generali un console attendo nella località da voi indicata dalle ventiquattro alle tre il quattro cinque e sei maggio segnali convenuti ».
In una delle tre notti segnalate da Radio Zella un’imbarcazione raggiunge la costa e accoglie gli ex prigionieri.
Da questo periodo in avanti l’attività della spedizione diventa febbrile, l’area d’osservazione valica i confini della zona assegnata e raggiunge le Marche, la Toscana, il Veneto e si spinge fino a Milano. Spesso i dispacci riprendono l’argomento dei bombardamenti e denunciano il modo come essi vengono compiuti.
Ad esempio: «… bombardamento di Castelmaggiore del due maggio maggio eseguito a sud degli obiettivi principali… » « .. Bombardamento Faenza colpito case popolari ».
«Messaggio n. 27 – 15 Maggio
Bombardamento Faenza provocato ingenti danni abitato centro e periferico numerose vittime x non esiste difesa Faenza nostro centro lavoro x bombardamenti ostacolano nostro servizio».
Per dare maggiore rilievo alla protesa e per ostacolare altre incursioni sui centri abitati, si invocano necessità di servizio.
La documentazione telegrafica di Radio Zella è densa di testimonianze di rilevante interesse, e si estende oltre il campo della nostra ricerca. Particolarmente ci preme mettere in evidenza il contributo dato per i rifornimenti di armi alle Brigate partigiane della Romagna.
Il primo aviolancio chiesto ed ottenuto era previsto sul Monte Faggiola dal 4 al 9 giugno. Esso veniva spostato sul Monte della Pietramora, nelle vicinanze di Faenza, ed aveva luogo la notte fra il 9 e il 10 giugno, con segnale BCC «La bambola dorme». Il giorno dopo Radio Zella trasmetteva:
«Messaggio n. 52 – 11 Giugno
Oviolancio bene eseguito e ricevuto grazie x causa precedenti disguidi e conseguenze riduzione affettivi abbiamo ritenuto limitare ricevimento materiale urge aviolancio monte Faggiola che offre qualsiasi possibilità ricevimento si richiedono armi e esplosivi scarpe x date conferma ed appuntamento x.»
All’indomani il comando americano rispondeva:
« … attendete aviolancio monte Faggiola dalle 15 in poi… segnale BBC “un caffè sport” prevediamo tre quattro lanci per prossimi trenta giorni… ».
Gli aviolanci programmati saranno così distribuiti:
• Monte Faggiola: due lanci ricevuti dalla 36.a Brigata Garibaldi “Bianconcini“;
• Monte Lavane: un primo lancio previsto non venne effettuato perché il Battaglione Ravenna che lo doveva ricevere non raggiunse la posizione stabilita, mentre un altro lancio venne ricevuto dallabanda Corbari;
• Monte Marino: un lancio non avvenne perché i partigiani ai quali era destinato non riuscirono a fare i segnali in quanto nella notte volavano nella zona anche aerei tedeschi;
• Monte Granaglione: un lancio concordato su richiesta del CLN di Bologna non venne eseguito a causa della cattura della radio;
• Casalborsetti: concordato e ottenuto un rifornimento via mare; l’operazione venne compiuta in due tempi perché una delle due banche che dovevano recarsi note al largo per caricare il materiale dal sommergibile alleato non si presentò all’appuntamento (25). Le armi ricevute erano
inservibili perché incomplete, le parti mancanti erano rimaste sul sommergibile. Tuttavia, dopo diversi tentativi non riusciti, ebbe luogo anche il secondo rendez-vous.
Il rifornimento di armi non rallentava l’attività di informazione. La missione continuava a segnalare i luoghi delle installazioni nemiche, i concentramenti di automezzi, i depositi di carburante, le più importanti azioni dei partigiani, particolarmente quelle che ostacolavano il transito delle colonne naziste; spesso la missione era chiamata a sostituirsi ed altri che non erano tecnicamente in grado di espletare i compiti del proprio servizio. Che il lavoro svolto fosse di rilievo lo testimonia il messaggio ricevuto l’11 luglio che afferma: «… vostre informazioni ottime x ringraziamo continuare x».
Continuare era nel proposito di tutti, ma l’elogio dei superiori giungeva al momento del declino, perché il giorno precedente una grave perdita aveva colpito l’ORI. Dell’evento Roberti dava notizia al comando alleato:
«Messaggio 86 – 14 luglio
nostro lavoro incontra difficoltà estreme due collaboratori lunedì sono caduti in missione x nostro capo Team arrestato dai tedeschi ed evaso in domani x intensificato lotta per vittoria comune ed nostra libertà kantica virtù x».
I caduti erano Bruno Neri e Vittorio Bellenghi trucidati a Gamogna mentre al Comando del Battaglione Ravenna, appena costituito, si recavano al Lavane per ricevere un aviolancio. Stavano precedendo la formazione per scoprire un passaggio sulla strada Marradi-San Benedetto in Alpe, infestata da tedeschi, quando veniva loro tesa un’imboscata.
Il capo Team citato nel messaggio, arrestato ed evaso con un’azione di rara audacia, era il Roberti (26).
La Villa di Rivalta era stata opportunamente abbandonata da tempo e la radio era adesso installata a Pieve di Cesano in casa del Maestro Pietro Fabbri.
Le estreme difficoltà che incontrava la missione dipendevano dal fatto che le forze nemiche non ignoravano la presenza nella zona di una radio trasmittente e le davano una caccia spietata. Di ciò era informato il comando americano tanto che fin dal 27 aprile aveva invitato gli uomini della radio a stare allerta:
«Messaggio 8 – 27 aprile
…grf fascisti conoscenza vostra presenza state in guardia».
La situazione si era ulteriormente aggravata con la morte di Bruno Neri e Bellenghi. Virgilio Neri oramai era individuato. Anche il fatto di Gamogna conduceva alla cerchia delle amicizie che Neri coltivava. Il gruppo faentino dell’ORI si restringeva gravemente. Ciò proprio nel momento in cui i problemi incalzavano maggiormente, quando la missione era continuamente chiamata a far fronte ai nuovi problemi che l’avvicinarsi del fronte creava. È in questo periodo che Radio Zella entra in contatto con una formazione Slovacca inquadrata nell’esercito germanico, di stanza a San Piero in Bagno.
Il comando del reparto è deciso a passare in forza al campo alleato, e l’operazione presenta particolari difficoltà perché per congiungersi con gli alleati gli Slovacchi devono aprirsi in una breccia nelle difese tedesche sul passo del Verghereto e intorno a monte Coronaro.
Allo scopo di perfezionare i termini dell’impresa, viene convenuto che un agente di Radio Zella sarà prelevato da un Mas e via mare raggiungerà il territorio libero. L’appuntamento alla imbarcazione non riesce e allora il messaggio n. 101 precisa che l’inviato «… avrebbe discusso… invio agenti (alleati) presso truppe slovacche».
I problemi interni del reparto slovacco e i suoi rapporti con i tedeschi costringevano i comandanti a forzare i tempi. Di tale situazione è prova il messaggio che doveva essere trasmesso il giorno 28 luglio. Roberti prepara il testo e lo consegna a Zanco perché provveda alla trasmissione. Egli vorrebbe restare per attendere la risposta alleata, ma non può, per sua fortuna. Privato di alcuni tra i più validi collaboratori è costretto spesso a sostituirli personalmente. Perciò di buon mattino lascia Pieve Cesato in bicicletta per recarsi a Lugo. Zanco si mette al lavoro, sotto un pergolato a ridosso dell’abitazione. Verso le dieci all’improvviso compaiono due tedeschi: cercano un posto adatto a piazzare una cucina per il rancio del reparto, giunto la notte e accantonato nelle case sparse dintorno. Alla vista dei nemici Zanco si tradisce: con un gesto meccanico nasconde le carte che ha sul tavolo. I nazisti notano quel comportamento, si insospettiscono, gli frugano nelle tasche, gli trovano del materiale sospetto (i codici segreti), lo portano al comando. Anche la casa viene messa a soqquadro, la radio è scoperta e sequestrata. Il marconista viene consegnato alla Gestapo che lo sottopone ad interrogatorio coi metodi per cui è rimasta famosa. Andrea resiste tre giorni, tanto quanto basta perché i compagni si mettono in salvo, poi crolla, pronuncia i nomi di coloro che ha conosciuto (non molti) e indica i luoghi dove ha soggiornato. Quando gli è stato estorto tutto quello che sapeva viene trucidato.
Ruberti, sulla via del ritorno dal Lugo, viene raggiunto dalla sua staffetta e messo al corrente dell’accaduto. Fa subito avvertire i compagni che si nascondono i luoghi sicuri. Per meglio concordare sul da farsi, si svolge una riunione a Villafranca di Forlì, Dove tutti assumono l’impegno di stare lontani da qualsiasi luogo e da qualsiasi persona con cui abbiano avuto contatti durante l’attività clandestina.
Intanto la Gestapo ha catturato il maestro Pietro fabbri, proprietario della casa che ospitava la missione e lo uccide, il 3 agosto nei pressi di Forlì. Anche Vincenzo Lega sarà arrestato e ucciso circa un mese dopo, il 5 settembre, sempre a Forlì.
Tonino Spazzoli, in seguito alla riunione di Villafranca, si rifugia a Sise di Forlì, presso parenti, coll’intento di trasferirsi a Bologna allorquando sarà cessato il pericolo. Non ha però sufficiente pazienza. Trascorsi tre giorni lascia il nascondiglio, va in città, a casa sua, per fare la valigia e partire per Bologna. La Gestapo è lì che l’attende.
Arturo, in missione a Rimini, conosciuto l’arresto del fratello, rientra, si incontra con Farneti a Prada, nella campagna faentina, gli chiede la presentazione a Corbari perché ha in animo di tentare la liberazione di Tonino con un assalto alle carceri di Forlì, dov’è rinchiuso. Corbari si trova con la sua banda a Pian di Lago, sul Pompegno, fra il Tramazzo e l’Acerreta. Accetta la proposta e, insieme allo stesso Spazzoli e all’Iris Versari, si sposta a San Valentino fissando la base a Cornio e di qui si reca a Forlì. La sera del 17 agosto rientrano a Cornio stanchi e sfiduciati. Poche ore dopo, sul far dell’alba, saranno circondati da tedeschi e fascisti, catturati e uccisi.
Dell’ORI si salveranno soltanto il comandante Antonio Farneti, Virgilio Neri (27) e Carlo Maltoni.
Il 28 luglio 1944 termina la storia della missione Radio Zella. La perdita fu incalcolabile. Era destinata a continuare il servizio fino alla fine della guerra, doveva precedere la ritirata dei tedeschi per continuare l’attività nelle retrovie nemiche. La sua fine fu dovuta al caso, non all’imprudenza (28).
25 Il proprietario della barca si era ubriacato.
26 La cattura di Roberti avvenne a Brisighella la mattina del 9 luglio in seguito ad un rastrellamento tedesco. Due giorni prima i partigiani avevano disarmato un reparto di soldati repubblichini accampato nelle Terme, e i nemici si vendicavano. Fra tanti rifugi che Roberti aveva stabilito, vi era anche una stanza presa in affitto in qualità di tecnico di un’impresa di costruzioni stradali presso una famiglia (Graziani) di fascisti. Le SS lo prelevarono dal letto (contemporaneamente ad altri del paese) e lo portarono nelle carceri di Forlì. Durante la notte successiva, arrampicandosi lungo le condotte dell’acqua, per cinque metri, raggiunse il muro di cinta. Da quell’altezza saltò a terra fra due copie di sentinelle che gli spararono diverse raffiche, ma egli riuscì egualmente a guadagnare i campi aldilà della circonvallazione.
27 Virgilio Neri, avuta notizia della cattura della radio, per avvertire gli alleati, da Faenza raggiunge Milano in bicicletta e consegna un messaggio al CLN. Subito dopo cade in mano ai tedeschi, che lo inviano in Germania. Prima di arrivare al Brennero riesce a sfondare il pavimento del carro bestiame dov’è rinchiuso e si mette in salvo, gettandosi dal treno in corsa.
28 La missione ebbe in Faenza molti recapiti fra cui l’abitazione di Carlo Maltoni, di Teo Gaudenzi, di Eclo Leonardi, l’albergo Vittoria, ecc.
Nel marzo del 1944 Gino Monti, dopo aver trascorso l’inverno del basso lughese (Voltana), ritorna in zona. Attorno a lui si ritrovano alcuni compagni e amici e insieme dànno vita a un gruppo che prende nome “ Scansi “. La piccola banda si muove sulle colline che fanno corona a Faenza. Per le sue intrinseche debolezze politico-organizzative la banda non riesce ad espandersi e a diventare una formazione di tipo garibaldino.
Tuttavia il problema dello sviluppo della Resistenza nel faentino continua ad essere all’esame degli organi politici locali e provinciali. Alla sua risoluzione contribuisce efficacemente l’aviolancio del Castellaccio (Pietramora), che avviene la notte del 10 giugno 1944. La fornitura è stata confermata a Radio Zella col messaggio n. 27 del 4 dello stesso mese. Si era convinti che l’esecuzione del lancio seguisse immediatamente la conferma, quindi il ritardo creò scetticismo, tanto che diversi gruppi partigiani affluiti sul fronte, dopo due giorni d’attesa, preoccupati per la prolungata e numerosa presenza su quella vetta spoglia, lasciarono la zona. Quando la BBC trasmetteva il segnale —- «La bambola dorme» —- restavano ancora la Scansi e una squadra GAP di Brisighella. Altri partigiani di Faenza si aggregavano all’istante portando a 28 il numero dei presenti.
L’aereo giunge verso le 23, risponde ai segnali, si accendono i tre fuochi a forma di triangolo. L’aeroplano gira due volte e poi s’abbassa sulla pista e lascia cadere una pioggia di ombrelli che volteggiano nel chiarore di un cielo senza luna. Fra i partigiani la gioia è indescrivibile. I paracadute toccano terra e incomincia il recupero; l’affannosa ricerca si estende anche giù per il calanchi, dove diversi colli rotolano trascinati dal vento.
Dopo alcuni giri dell’aereo sulla pista, il capo missione ordina di spengere i falò, anche se non è terminato il lancio, perché a suo parere le forze disponibili per i recuperi sono insufficienti. Ma anche nel buio l’aereo s’attarda sulla pista e continua a lanciare, così alcuni colli cadono distanti e non vengono racconti. Quando spunta l’alba buona parte del materiale è già stata nascosta in case di contadini, lontane oltre due chilometri dal lancio; l’altra parte è ancora ammucchiata sul posto e le forze per portarla via mancano; i partigiani sono troppo stanchi per continuare l’immane fatica: sono cinquanta i quintali della merce caduta sul terreno accidentato. Ciò che ancora si trova sulla pista è trascinato in un campo vicino e nascosto sotto un cumulo di erba appena falciata.
L’operazione, per scarsa presenza di uomini, si è svolta senza misure di protezione, ossia senza pattuglie sulle vie che accedono al monte. I segnali luminosi indubbiamente sono stati notati dalla vicina Faenza e da buona parte della pianura romagnola. Così i nemici muovono l’attacco appena è giorno. I contadini portano la notizia che colonne di fascisti e di tedeschi salgono da Marzeno in direzione del monte. Lungo il percorso essi s’imbattono in quattro colli dispersi.
Aspettare il loro arrivo sul posto per i partigiani sarebbe il suicidio: la stanchezza non consente di sostenere un combattimento. Perciò lasciano la zona dirigendosi in un bosco sulla destra del Samoggia.
I nemici raggiungono il monte, ma trovano, oltre quanto hanno già incontrato, solo i teli dei paracadute, occultati entro le grotte dai partigiani. Questi a sera escono dal bosco, abbandonano la zona per tornare alle basi, mentre il materiale viene trasportato in città da altri, con un camion (29). Quando gli incaricati del trasporto giungono sull’aia di uno dei contadini che hanno in custodia le armi, apprendono che Corbari ha fatto un prelievo e ha ordinato di portare via il rimanente, già caricato in un biroccio.
Due giorni dopo, mercoledì 14, gli stessi partigiani lasciano le loro basi e si dirigono sul monte Faggiola (m. 1301) per ricevere, insieme ai garibaldini della 36ª Brigata, un altro aviolancio. Il raduno è fissato alla Torre dei Pratesi in Santo Stefano (Brisighella). Guida la colonna il dr. Virgilio Neri. Dopo aver percorso sotto il sole buona parte del tragitto i partigiani scendono nella valle del Senio, a Mercatale, salutati dalla popolazione entusiasta. Usciti dalla valle raggiungono Sommorio, alle falde del Faggiola. Qui li informano che sul monte è incorso un rastrellamento tedesco. La banda si ferma e procedono soltanto in tre: Neri, Palì, Biasé, i quali si spingono fino a un casolare a nord della cima, chiamato Rimirara, appena abbandonato dai tedeschi. Dai contadini vengono a sapere che è stato catturato il comandante della Brigata, Lorenzini. Il giorno successivo, il gruppo (che ha pernottato a Sommorio) sale sul Faggiola e la pattuglia di Neri raggiunge la Brigata, a monte Fabbro, per prendere accordi sul ricevimento del lancio e la sparizione del materiale. L’arrivo dell’aereo è atteso per la notte del 16 giugno, ma alla sera il tempo peggiora. Improvvisamente le nuvole avvolgono la montagna, e c’è pioggia e neve e vento tutta la notte e i giorni seguenti. Permanere su quel monte, a quelle basse temperature, con degli abiti estivi, significa ammalarsi tutti. Già molti sono raffreddati e influenzati. Dopo aver preso accordi con Bob, nuovo comandante della 36ª, i faentini lasciano il posto nel pomeriggio del 20, scendono per sentieri avvolti in una folta nebbia. Il lancio avviene la notte del 22, appena tornato il sereno e il materiale è interamente recuperato dalla 36ª.
Alle rientro dal Faggiola i faentini devono organizzare il Battaglione Ravenna, e ricevere sul monte Lavane un altro aviolancio, di cui attendono la conferma. La formazioni, a lungo sollecitata dal PCI, deve sorgere con un’impostazione largamente unitaria (30).
A tale organismo l’apporto numerico più consistente viene dato dal PCI, Ma vi concorrono tutti partiti del CLN, l’ORI e tutte quelle forze che operano in collegamento con essa. Il comando militare viene assunto, con pari grado, da Bruno Neri e Vittorio Bellenghi; commissario politico è Gino Monti, ufficiale di collegamento Vincenzo Lega.
Il Battaglione Ravenna si costituisce il 9 luglio in Casale di Modigliana, dove i partigiani arrivano a piccoli gruppi. Appena realizzato il previsto inquadramento, la formazione si mette in cammino diretta al Lavane (31). Giunta nei pressi di Gamogna essa si ferma e i due comandanti procedono da soli per esplorare la zona, in quanto lungo la valle che congiunge Marradi a San Benedetto in Alpe sono dislocati vari reparti tedeschi che presidiano la costruzione della Linea Gotica. Neri e Bellenghi non ignorano la pericolosità dei luoghi. Per questo, forse, vanno di persona, tutti e due. Lungo il percorso vengono però individuati dai nemici che tendono loro un agguato e li uccidono, seviziandone i corpi. Il Battaglione Ravenna è privato dei comandanti. È il 10 luglio 1944, ore 14,30 circa (32).
Ricomposte le salme (33) il Battaglione retrocede fino al monte del Tesoro.
La perdita dei comandanti produce disorientamento in tutti i componenti della formazione. Nessuno sa più che cosa fare, nessuno prende la responsabilità di continuare verso il Lavane. Inviano invece una missione a Faenza, quindi al comando provinciale per ricevere disposizioni.
Bulow, vista la situazione che si era creata, prende l’unica decisione che potesse adottare con urgenza: appoggiare il battaglione alla Brigata Garibaldi Bianconcini.
Nel frattempo i partigiani di Castelbolognese e di Riolo Terme, che marciavano diretti verso il Lavane per congiungersi coi faentini, avuto notizia dell’accaduto, si erano fermati a Cavina, in attesa di disposizioni.
Del Battaglione esistevano quindi due gruppi staccati l’uno dall’altro. L’incarico di guidare quello del monte del Tesoro fino a Cavina venne affidato a Palì (comandante dei GAP di Brisighella), poi da Cavina fino alla 36ª la marcia fu diretta da Ivo Mazzanti di Riolo Terme.
Raggiunta la meta i partigiani romagnoli vennero inquadrati nella 36ª, formando tante compagnie di questa.
Molti giovani delle vallate del Lamone e del Senio continueranno ad ingrossare le file dell’agguerrita Brigata la quale, nel periodo della massima espansione, supererà i 1400 uomini.
Dal momento della sua confluenza nella 36ª, il Battaglione è parte integrante di essa, fino a metà settembre, quando la 36ª attua la decisione del CUMER di dividere la Brigata in quattro battaglioni, ciascuno destinato alla liberazione di una città:Faenza, Imola, Castel San Pietro, Bologna. A questo punto ritorna in vita il Battaglione Ravenna (per il comando della brigata è il 2° Battaglione). Comandante militare viene nominato Ivo Mazzanti, commissario Gino Monti.
Il piano insurrezionale di Faenza prevede la discesa in città, congiuntamente, del Battaglione Ravenna e del Distaccamento GAP «Celso Strocchi», rispettivamente di 350 e 400 uomini circa.
Riacquistata l’autonomia il Battaglione Ravenna si sposta in Santo Stefano. Mentre fervono i preparativi per la battaglia finale, la V armata americana affronta la Linea Gotica vincendo con relativa facilità ogni resistenza nemica. Il fatto destra sorpresa sono in coloro che ignorano il contributo partigiano: in realtà la prolungata e logorante guerriglia condotta dall’8ª Brigata sul Muraglione, della 36ª fra il Giogo di Scarperia e Casaglia, dai GAP sulla Marradi – S. Benedetto, ha impedito ai tedeschi di costruire buona parte delle difese fisse. Se si aggiungono a ciò gli innumerevoli attacchi gappisti lungo le vie che collegano la Romagna alla Toscana, la ritirata tedesca diviene perfettamente motivata.
Dopo lo sfondamento della Gotica comincia un intenso transito sulle strade che collegano le valli parallelamente alla via Emilia e in questa nuova situazione avvengono fatti importanti.
La mattina del 24, mentre fa ancora buio, il Battaglione distrugge una colonna di carriaggi che transita sulla strada della Valletta, diretta a Zataglia. L’azione consiglia i partigiani a spostarsi verso l’alto per meglio difendersi dal contrattacco nemico facilmente prevedibile. Anche il Distaccamento GAP Celso Strocchi lascia monte Mauro per fare fronte comune col Battaglione Ravenna. Lo schieramento si realizza nella zona di Cavina verso mezzogiorno, appena in tempo per fronteggiare tedeschi che vi giungono autotrasportati. Comincia così la battaglia di monte Giornetto, che durerà violenta fino alle otto di sera.
I tedeschi e i fascisti impiegano notevoli forze e vanno all’assalto a più riprese; entrano in azione anche i mortai. Il comandante di compagnia Mino (Neri Domenico) resta ucciso da una pallottola esplosiva che lo colpisce in fronte. I nemici riportano pesanti perdite. Caricati morti e feriti sugli automezzi essi lasciano la zona quando cala il sole e sulla via del ritorno sfogano la rabbia incendiando case e uccidendo quattro contadini che trovano nei campi (34).
I partigiani si spostano ancora verso i monti e si congiungono col 4° Battaglione e con il comando della 36ª Brigata. La mattina seguente, dall’alto, scorgono colonne di tedeschi scendere e in disordine lungo i sentieri che fiancheggiano il simbolo Sintiria. Vengono perciò fatti appostamenti sul corso del torrente. Giunti davanti alle armi dei partigiani i nemici si arrendono senza opporre resistenza (35).
Superata la Gotica, infatti, non ci sono più ostacoli che impediscano agli alleati la continuazione della marcia verso la pianura e il senso della imminente disfatta si impossessa di quei reparti.
È giunto il momento di mettere in atto la prima fase del piano insurrezionale portando le forze partigiane vicino a Faenza. In due tappe il Battaglione Ravenna e il Distaccamento Strocchi, la notte del 4 ottobre, raggiungono la Pideura e si attestano nella zona con uno schieramento a raggiera che blocca le strade d’accesso.
La tattica partigiana però non ha previsto l’atteggiamento alleato. L’ordine di Alexander, di riporre le armi fino a primavera, non era ancora noto, ma è già nei fatti: la pressione alleata diminuisce, i tedeschi riprendono fiato e riorganizzano le schiere.
Il raggruppamento della Pideura conta già oltre 600 uomini, quindi non può passare inosservato; inoltre è in posizione facilmente raggiungibile con mezzi blindati: poteva essere tenuta dai partigiani solo nell’imminenza di un attacco alla città di Faenza, distante circa 6 chilometri. Dato il nuovo corso delle operazioni belliche questa prospettiva si allontana nel tempo. Le preoccupazioni sono accresciute dal fatto che un maresciallo tedesco, accolto nelle file del Battaglione Ravenna dopo aver portato un’ autoblindo senza munizioni, fugge improvvisamente dalla formazione.
Il pomeriggio del 6 ottobre i tedeschi attaccano le postazioni partigiane con armi a tiro lungo e mortai. Alcune case coloniche vengono incendiate e quattro contadini uccisi (36).
I partigiani, dopo un accanito combattimento, indietreggiano nella zona di Montecchio, e qui vengono nuovamente assaliti. Infine ritornano a Santo Stefano, dove il terreno consente una più facile difesa. Anche il 4° Battaglione della 36ª, dopo aver tentato di spostarsi verso Imola, è di nuovo in zona; così si arriva al concentramento di circa 900 uomini.
Il fronte è fermo a poca distanza, lo spazio per i movimenti è ridotto a pochi chilometri quadrati percorsi da strade praticabili con automezzi; il tempo è inclemente, piove da settimane e fa freddo; i vestiti partigiani sono ancora quelli estivi; l’economia delle popolazioni è ridotta all’osso. Scarseggiano i viveri, le munizioni, i medicinali e i malati aumentano paurosamente.
In questa situazione prende corpo l’idea di forzare le linee per attuare il congiungimento con gli alleati e continuare la lotta al loro fianco.
Il pomeriggio del 9 ottobre, nel podere Le Siepi, si riuniscono il comando della 36ª e i comandanti e i commissari di compagnia. Sono stati invitati anche i dirigenti dello Strocchi, Mario e Palì, i quali però non condividono la posizione della brigata, perché ritengono che vi siano ancora aree dove si possa operare.
La decisione per la 36ª viene adottata all’unanimità. Subito la zona viene sgombrata. Lo Strocchi attraversa il Lamone e si porta nella zona dell’Ebola, la 36ª marcia in direzione di Cà Malanca.
L’attacco per forzare le linee tedesche comincia alle prime luci del 10 ottobre e incontra una resistenza imprevista. Per questo motivo, dopo un giorno in intiero di aspri combattimenti, aggravati dall’intervento delle batterie alleate che scaricano granate sulle postazioni partigiane, i garibaldini sono costretti ad abbandonare l’impresa. Retrocedono nella valle del rio Cò, intorno alla canonica di Purocielo. Vi giungono nel cuore della notte stanchissimi, privi del tempo e delle forze necessarie per predisporre uno schieramento di difesa contro eventuali attacchi, che del resto non prevedono per il giorno seguente.
«Il primo a svegliarsi fu Attila ed era appena l’alba …si caricò le armi, slegò il cavallo, balzò in sella e partì al galoppo in direzione di Ronchi, sede del suo reparto. Ma a Ronchi i suoi compagni vedranno arrivare solo il cavallo: Attila infatti, sorpreso dal nemico, era stato colpito al collo da una raffica di machine sparata dai tedeschi che avanzavano in un largo schieramento, con obiettivo proprio il comando. Il nostro comandante cadde a terra, morente, ma prima che i tedeschi lo raggiunsero, riuscì ad infilare un caricatore nello Sten e ad uccidere, con una breve raffica, i primi tre soldati che si avvicinavano: poi spirò con l’arma in pugno» (37).
Quelle raffiche furono in segnale d’allarme, poi la battaglia si sviluppava intorno a Cà Gostino presa d’assedio da preponderanti forze tedesche. Ne seguiva un furioso combattimento. Era indispensabile uscire dal cerchio e guadagnare il monte sovrastante. Bob diede l’ordine di aprire un varco ed uscire per primo allo scoperto. L’ordine venne dato soltanto quando il presidio aveva resistito quel tanto che era necessario alle compagnie per schierare le forze sull’arco montano.
La pattuglia del Comando si portava all’aperto per guadagnare posizioni meglio difendibili, ma solo Bob e Nerio arriveranno. Ivo Mazzanti, comandante del Battaglione Ravenna, veniva colpito gravemente. «Immobilizzato e morente si sdraiò a terra, recuperò il suo Sten, attese che i tedeschi si avvicinassero e quando furono a cinque-sei metri aprì il fuoco uccidendone due e costringendo gli altri ad arretrare, favorendo così la marcia dei compagni. Poi i tedeschi si fecero sotto, stavolta avanzando ad arco. Allora Ivo sparò ancora una breve raffica e poi si uccise, per non cadere prigioniero» (38).
I combattimenti proseguirono intensi con gravi perdite da entrambe le parti. Una colonna nemica veniva avvistata mentre convergeva su Purocielo e, attaccate dalle compagnie di Amato e di Dino, lasciava sul terreno molti morti e feriti gravi, tanto da essere costretta ad alzare la bandiera bianca e a chiedere, formalmente, dieci minuti di tregua, che vennero concessi, per raccogliere morti e feriti.
Alla sera le sparatorie cessarono e i partigiani facevano quadrato intorno al Torrione di Calamello. La Brigata era salva ma i vuoti di presentavano incolmabili. I caduti venivano trasportati nella chiesa di Cavina, mentre i feriti trovavano posto nella canonica.
I combattimenti riprendevano il giorno dopo, ma i tedeschi, dopo l’esperienza fatta, si rivelarono meno decisi.
La sera del 12, ai piedi del Torrione, Bob riunisce i collaboratori per un esame della situazione e per decidere insieme che cosa fare. Viene concordato di insistere sull’attraversamento delle linee e per guidare la Brigata fino al congiungimento si decide di chiamare Palì, comandante dello Strocchi. La richiesta viene firmata da Bob e da Enrico Benazzi (Benazzi apparteneva allo Strocchi ed era in missione presso la Brigata), e recapitata a Palì che si trovava con la sua formazione nella zona di Lago di Modigliana (Splangheto) (39).
La sera del 13 la 36ª abbandona la zona lungamente presidiata, per congiungersi con una squadra GAP, alla Torre di Fognano, e poi dopo una marcia durata tre notti, all’alba del 16 ottobre, sul monte della Collina, sopra San Benedetto in Alpe, Avviene l’incontro con gli inglesi (40).
Col passaggio delle linee praticamente termina la storia del Battaglione Ravenna. Era sorto il 9 luglio 1944 sul ceppo della formazione costituitasi nel settembre del ‘43, aveva perso la sua autonomia in pochi giorni, in seguito alla dolorosa vicenda di Gamogna. Divenuto Battaglione della 36ª Brigata Garibaldi Bianconcini, era tornato autonomo nel settembre del ‘44; dopo venti giorni, riunitosi nuovamente con la 36ª, insieme ad essa combattè le ultime epiche battaglie.
29 Il camion era pilotato da Morini Francesco (Chicon d’Spianè) e il carico venne ricevuto in casa di Ferrucci Domenico (Simunet) in via Gallo Marcucci.
30 La costituzione del Battaglione Ravenna venne prima approvata dal CUMER (riunione di Solarolo) presenti Dario, Bulow, Silvio, Cristallo ed Amos. La decisione operativa veniva poi adottata in Rivalta nella villa del dr. Virgilio Neri, presenti, oltre lo stesso Neri, Boldrini e Cervellati.
31 Vittorio Bellenghi conosceva benissimo la montagna appenninica, ma non altrettanto il tragitto fra Casale di Modigliana e la Valle da Meda (Gamogna). Per questo chiese ai GAP di fornirgli una staffetta. Incarciato di questo compito fu Tavazzani Fortunato il quale, superato il valico del Toretto, esauriva la sua missione. I due comandanti erano anche stati informati dai Gap sulle azioni da loro eseguite contro i cantieri tedeschi, impegnati a costruire le fortificazioni della Linea Gotica nella zona di Valle da Meda.
32 Il fatto presenta aspetti non è del tutto chiari sul piano della tattica guerrigliera. Sembra doversi escludere che cadessero vittime di una spiata, è più credibile che fossero avvisati da un piccolo gruppo di tedeschi dislocati in qualche cantiere. Quello che più sorprende è che tutti e due i comandanti si fossero trasformati in pattuglia di avanguardia e che distanziassero la formazione di oltre mezz’ora di cammino.
33 I corpi furono recuperati da Gino Monti, Luigi Quarneti e Vincenzo Lega e vennero consegnati al parroco di Gamogna per la sepoltura. Al prete venne data in compenso una somma di denaro.
34 Le vittime di quest’eccidio furono: Conti Paolo, cl. 1894; Gonelli Mario, cl. 1888; Zauli Domenico, 1893; Mordini Silvio, cl. 1898.
35 I tedeschi catturati in questa azione dalla 36ª e dal Distaccamento Strocchi, complessivamente furono circa 80.
36 Le quattro vittime sono: Alboni Lorenzo, cl. 1905; Alboni Luigi, cl. 1906; Gaddoni Pietro, cl. 1896; Santandrea Anselmo, cl. 1901.
37 L. BERGONZINI, Quelli che non si arresero, Roma, 1957.
38 L. BERGONZINI, op. cit.
39 Testimonianza di Enrico Benazzi e Mario Badiali.
40 Durante la seconda tappa, nell’attraversare la strada che fiancheggia l’Acerreta fra Modigliana e Lutirano, in piena notte, una squadra di tedeschi in bicicletta, s’imbatteva nella pattuglia partigiana di protezione. Ne seguiva una sparatoria. Fu il segnale dall’armi. Dalle case vicine, tutte occupate da tedeschi, iniziava una fitta fucileria che sorprese i partigiani intenti a raggiungere la sponda opposta del fiume. Nel buio alcuni non s’accorsero che camminavano sopra un precipizio e caddero nel burrone. Due restarono morti e altri feriti.
La storia della resistenza faentina è strettamente legata alla lotta di liberazione del restante comprensorio, ossia del territorio indicato come «Zona 8», comprendente i comuni di Castelbolognese, Riolo Terme, Casola Valsenio, Brisighella e Faenza. Va anche notato che gran parte del comune di Modigliana, di fatto, fece parte della «Zona 8»: si tratta dell’area a sinistra del Marzeno e di tutta la valle dell’Acerreta, fino a Lutirano, appartenenti alla provincia di Forlì.
In questa zona operavano notevoli forze organizzate militarmente inquadrate nello “ Strocchi “. Le ragioni dello sconfinamento organizzativo oltre i limiti provinciali sono da ricercarsi in due fattori principali: da un lato la conformazione del terreno faceva di quei dorsali l’entroterra naturale per i contingenti GAP che operavano lungo la valle del Lamone, dall’altro essi costituivano una propaggine della provincia scomoda da raggiungere per l’organizzazione di Forlì.
A guerra finita però quelle forze armate sono rientrate nella propria terra, quindi sottratte al conto globale dei riconoscimenti di “ Partigiano Combattente “dell’unità a cui avevano appartenuto. Di conseguenza i dati statistici di alcuni comuni di Ravenna non riflettono la realtà organizzativa militare.
Partigiani e Patrioti riconosciuti dalla Commissione Regionale
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Faenza n. 423
Brisighella n. 155
Castelbolognese n. 98
Casola Valsenio n. 211
Riolo Terme n. 380
TOTALE n. 1.277
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Se si ha presente il quadro complessivo della guerra di liberazione nel territorio della nostra provincia, a sud della via Emilia, apparirà chiaro che i dati sopra esposti non riflettono la realtà. Infatti sui monti sopra Brisighella, dalla Pideura a Monte Romano, per tutta l’estate del 1944 i partigiani hanno sostenuto numerosi combattimenti (Pideura, Montecchio, Calbane, Santo Stefano, Monte Giornetto, Cavina, Canovaccia, Cà di Malanca, Purocielo… per ricordare soltanto i più impegnativi); e gli abitanti di quei luoghi hanno offerto tutto quanto avevano, rischiando l’esistenza più degli stessi partigiani. Qualche volta hanno pagato un grave tributo per la loro solidarietà. Quella gente, senza distinzione di età e di sesso, a nostro avviso, aveva tutti i titoli per ottenere il riconoscimento di «Partigiano combattente» e non lo ebbe, perché per conseguire il «brevetto» si doveva essere inquadrati in unità combattenti ed aver partecipato almeno a tre azioni.
Questa valutazione va estesa agli abitanti della zona della Samoggia e del crinale che si stacca da Sarna fino al monte del Tesoro, con particolare riguardo a quelli delle parrocchie di Paglia e Cotignola nonché di tutta la conca intorno alla parrocchia di Casale di Modigliana, dove venne costituito un reparto dello Strocchi (50 uomini circa), comandato dal parroco don Angelo Savelli, medaglia d’Argento della Resistenza.
Questi vuoti costituiscono una notevole lacuna. A noi pare che, in diverse organizzazioni post-residenziali, sia prevalsa una visione settaria della qualifica partigiana (favorita in parte dallo stesso modulo ministeriale), e in pari tempo sia mancato il proposito di dare un adeguato seguito al rapporto politico che le unità combattenti avevano aperto con le popolazioni delle campagne.
In questa parte sono citati fatti già descritti nel capitolo Il battaglione Ravenna, e ciò perché le due formazioni, dal 24 settembre al 10 ottobre del 1944, operarono insieme. Inoltre in precedenza, nel capitolo «La ripresa», Abbiamo trattato l’origine dei GAP. Pertanto in queste pagine ci occupiamo soltanto degli avvenimenti successivi alla costituzione del Distaccamento Celso Strocchi.
I GAP della «Zona 8», a seconda del luogo di origine, ebbero caratteri e sviluppo differenti. Quelli della valle del Senio, fino al settembre 1944, si mantennero ancorati alla tattica gappista. Quelli di Faenza, con lo sfollamento quasi totale della città, dovuto ai continui bombardamenti aerei, in luglio furono costretti a lasciare il centro abitato per operare in piena campagna. Si spinsero allora nel briseghellese, dove stabilirono un’ampia collaborazione con i contingenti già attivi in questa zona (IV Settore) 41.
A Brisighella, fin dal loro sorgere — marzo 1944 — , i GAP si organizzarono in una formazione militare diversa. A tale riguardo il Casali annota: «… La “Zona 8“ — spinta dalle azioni di “Palì“ (Sesto Liverani) — tendeva sempre più a trasformare i contingenti GAP in distaccamenti stabili sul tipo della XXXVI Brigata Garibaldi “Bianconcini“, con la quale si ebbero contatti ed occasioni di collaborare» (42).
Tale diversità nell’ambito della stessa organizzazione sono da attribuire al modo in cui sorsero i vari gruppi, alla loro prevalente estrazione sociale e alla necessità di coprire la vasta area lasciata vuota fra la 36ª e l’8ª Brigata Garibaldi, (occupanti rispettivamente il Faggiola e il Falterona), area che, fra l’altro, divenne in un certo periodo rifugio di ladri e di avventurieri.
La formazione brisighellese, fino al mese di giugno del 1944, fu composta da soli contadini comunisti, ma successivamente si aprì a tutte le classi sociali, tanto che ne venne a far parte anche un prete, don Angelo Savelli. Per queste sue caratteristiche, poteva contare sull’appoggio incondizionato dell’intera popolazione (43).
A proposito di questo raggruppamento il Bergonzini osserva: «Diversa sarà la fisionomia del distaccamento. “C. Strocchi“, comandato da Sesto Liverani, operante a sud della via Emilia e nella pedemontana faentina, proprio per l’assetto politico e militare della formazione, parte integrante, seppur autonoma, della 28ª Brigata Garibaldi e politicamente coordinata dal CLN di Ravenna» (44).
Durante l’estate il Distaccamento GAP Celso Strocchi porta a compimento imprese belliche di notevole impegno, sostenendo scontri a fuoco con colonne nemiche al centro di Faenza e lungo la strada a Faenza-Firenze e arrecando al nemico rilevanti danni in uomini e materiali. In uno di questi attacchi, eseguito nei pressi di Strada di Casale, sopra a Fognano, venne distrutto un comando nazista composto da diversi ufficiali, e vennero recuperati importanti documenti, che furono inviati ai comandi superiori. Il grosso plico fu trasportato da Natale Valla. Sempre sulla stessa strada, un poco più a monte, venne assalita una colonna auto trasportata di tutte dirette a Firenze, dove già si combatteva per la liberazione della città. I danni arrecati furono notevoli e la marcia si arrestò fino al mattino.
In precedenza, le squadre SAP di Faenza, al comando di Natale Valla, avevano incendiato distrutto i due ponti in legno sul Lamone e sul Senio (Castellina e Felisio), Interrompendo due importanti vie di comunicazione. Radio Zella informa gli alleati dei due sabotaggi e la BBC diffonde la notizia da Londra. La notte del 7 luglio una squadra GAP di 6 uomini, con un colpo audacissimo, attacca e disarma un battaglione dell’esercito di Salò, di stanza alle Terme di Brisighella: 248 soldati e 10 ufficiali si arrendono ai partigiani. Qualche settimana prima lo stesso gruppo aveva disarmato il presidio della GNR di Rontana costringendo i militi a rientrare in paese seminudi.
Ma il momento più significativo dell’impegno politico-militare della Resistenza armata è rappresentato dalla salvaguardia del raccolto che i tedeschi avevano progettato di rapinare. Si trattava di impedire la trebbiatura, fino a quando i nemici non fossero più stati in grado di trasportare via il grano. L’azione consentì di mobilitare persone di ogni ceto attorno a un problema di interesse generale. Furono coinvolte nella battaglia tutte le forze organizzate, GAP, SAP, Fronte della Gioventù, e tutta la popolazione delle campagne, compresi i proprietari dei poderi. Questa azione consentì di coinvolgere gente fin’allora rimasta estranea alla resistenza.
Nel mese di settembre la lotta armata subisce una svolta. Gli alleati superano la Linea Gotica e irrompono nella pianura romagnola, a Rimini. Di qui in avanti, fino al Po, non ci sono più ostacoli naturali che possano fermare l’avanzata anglo-americana. Di fronte a tale prospettiva il CUMER emana la direttiva insurrezionale che chiama in azione tutto il popolo. Il Distaccamento GAP Celso Strocchi è destinato alla liberazione di Faenza. Le squadre Sap entreranno nei ranghi del Distaccamento per creare una sola organizzazione 45. Il comando della 28ª Brigata d’Assalto Mario Gordini, di cui lo Strocchi è parte integrante, dirama l’ordine di formare un inquadramento sul tipo delle formazioni stabili di montagna. Il raduno avviene su monte Mauro il 14 settembre 1944.
Anche durante la fase di ristrutturazione del Distaccamento ai partigiani si offre più volte l’occasione di aggredire i tedeschi. La via Emilia è continuamente controllata dagli aerei, perciò i nemici preferiscono le strade parallele che collegano le valli pre-appenniniche. Il 23 settembre i GAP partono all’offensiva sulla strada delle Calbane dove il traffico militare si è fatto intenso e « … assaltano una colonna di carri armati e automezzi… Colpito dal lancio di bombe a mano… un camion carico di materiale infiammabile si incendiava… Il nemico reagiva sparando cannonate dai carri armati… » (46).
L’attacco fu eseguito da 12 gappisti e fu sferrato contro gli autocarri che marciavano al centro della colonna blindata. La reazioni dei mezzi corazzati fu rapida e violenta. Le armi di bordo (cannoncini e mitragliere) battevano a setaccio il terreno a monte della strada per impedire la ritirata partigiana, poi i nazisti abbandonarono gli automezzi per avanzare sul terreno lavorato dai proiettili. I gappisti invece avevano deviato a destra per scendere a valle, cioè in direzione opposta al tiro tedesco. L’autocolonna restò bloccata sul posto fino al mattino.
Il giorno seguente, a poche ore di distanza, quando sulla Valletta il Battaglione Ravenna si scontrava con un reparto nemico in transito per Zattaglia, lo Strocchi interveniva catturando i militari in fuga verso il Sintiria. Furono fatti parecchi prigionieri e catturati dei cavalli.
In previsione dell’inevitabile reazione nemica, il Distaccamento si spostava a Cavina per disporsi al fianco del Battaglione Ravenna. Vi giungeva a mezzogiorno, nel momento in cui arrivavano anche i reparti misti di fascisti e di tedeschi. «Il Distaccamento Celso Strocchi, portatosi nello schieramento del 2° btg della 36ª, aveva il compito di tenere una posizione chiave. Il nemico attaccava con largo impiego di armi automatiche e senza risparmi di munizioni, veniva nettamente respinto. Il comando della 36ª brigata ha inviato un encomio al Distaccamento. Un elemento GAP è rimasto leggermente ferito per lo scoppio del moschetto. Un comandante di compagnia del 2° big. morto» (47).
La posizione del Distaccamento, sul promontorio sopra al cimitero di Cavina, venne raggiunta contemporaneamente dai GAP e dai tedeschi. Lo scontro avvenne quindi a distanza di pochi metri e i nemici ebbero la peggio. Subito dopo e per tutta la durata della battaglia su quel punto si rovesciarono raffiche di mitragliatrici.
Lasciato il luogo del combattimento i partigiani si portano verso l’alto dove incontrano i tedeschi che abbandonano disordinatamente il fronte di Monte Romano: la Linea Gotica è stata superata dagli alleati per oltre 10 chilometri, e i nemici si arrendono senza opporre resistenza. Lo Strocchi entra in azione a fianco dei garibaldini e cattura un buon numero di prigionieri che scendono lungo il Sintiria (48).
La previsione di una rapida avanzata degli alleati fino alla pianura è condiviso da tutti. I comandi dello Strocchi e del Battaglione Ravenna, dopo la svelta valutazione dei fatti, decidono di spostarsi verso Faenza. Aprono la marcia i gappisti seguiti dai garibaldini e giungono alla Pideura la notte del 4 ottobre.
Gli avvenimenti di questo periodo sono noti.
In Santo Stefano, dopo le battaglie della Pideuram e di Montecchio, la 36ª decide di varcare le linee alleate. Dopo 17 giorni di intensa collaborazione e di vita in comune le due formazioni si separano. Lo Strocchi si porta sulla destra del Lamone, lungo la valle del Rio Ebola, zona impervia ancora libera da forze nemiche.
L’esito delle battaglie di Cà Malanca e di Purocielo costringono il comando della 36ª a ricercare una posizione diversa per attraversare il fronte e si rivolge a Palì, comandante dello Strocchi.
La chiamata in causa del comandante Palì crea problemi fra i gappisti che sono intenti a predisporre nuovi piani d’azione, tuttavia l’appello dei compagni non può essere disatteso, in considerazione anche dello stato in cui si trova la 36ª, dopo le battaglie sanguinosi degli ultimi giorni.
Nelle mutate condizioni e con un numero di uomini ridotto, (49) al comando di Mario Badiali, il Distaccamento Strocchi, presi accordi con il CLN di Faenza, viene riorganizzato su nuove basi. Si costituiscono tre gruppi: i due minori, formati quasi al completo da elementi del posto, vengono lasciate rispettivamente a Modigliana e a Brisighella, mentre quello più consistente si dirige a Faenza. Gli uomini entrano isolatamente, disarmati, mentre le armi vengono trasportate con un carro condotto da Leopoldo Morini, Livio Steri e Maria Benazzi.
Palì, portato a compimento l’incarico di far attraversare le linee della 36ª (gli alleati gli impongono di raggiungere Firenze), riprende la via del ritorno e si ricongiunge ai comandi in città, il 12 novembre, quando le squadre sono già alle basi.
Nella cantina dello stabile di corso Garibaldi al n. 9, si trovano la direzione politica rappresentata da Ennio Cervellati (50), Lino Bedeschi (Amos), Quinto Bartoli e il comando militare, formato da Sesto Liverani (Palì) e da Mario Badiali, rispettivamente comandante e commissario del Distaccamento GAP Celso Strocchi. Del gruppo fanno parte inoltre la staffetta Elide, moglie di Amos, col figlio Paolo, e la famiglia di Giuseppe Zoli.
Le squadre invece sono dislocate nella cantina di Melandri in via XX settembre, presso i Salesiani in via Bondiolo, in via Fadina, nella Filanda e nel circolo Fiori del Borgo Durbecco.
In città non è rimasta rappresentanza politica eccetto il comando sopra citato e le autorità cattoliche del Vescovado, con le quali Cervellati mantiene quotidiani contatti.
Il piano operativo si deve attuare in due tempi: quando gli alleati raggiungeranno il Borgo, la squadra ivi dislocata, comandata da Mario Marabini, esporrà in dettaglio la volontà del CLN e del Distaccamento, il quale, allora che gli stessi alleati stabiliranno, entrerà in azione per eliminare le postazioni tedesche sulla sinistra del Lamone ed aprirà la strada all’avanzata verso il centro della città.
La città è quasi deserta, percorsa soltanto da gruppi di tedeschi che spogliano gli appartenenti abbandonati. Le famiglie rimaste si sono riunite negli istituti religiosi (Vescovado, Salesiani…). Qualche nucleo si è rifugiato negli scantinati dalle fondamenta più robuste.
Gli aerei alleati sorvolano tutto il giorno il centro abitato e sganciano bombe. Le artiglierie completano l’opera con un tiro al bersaglio sui campanili e sulle altre costruzioni più elevate.
Gli inglesi, giunti al Borgo, si rifiutano di prendere in considerazione il progetto dei partigiani; anzi i bombardamenti indiscriminati continuano. In città vi sono soltanto scarse retroguardie tedesche e un autoblindo, che agisce di notte sparando brevi sequenze di colpi e, rapidamente, si sposta in altro luogo per ripetere la stessa azione.
Qualora gli alleati avessero preso in considerazione il piano partigiano, Faenza avrebbe potuto essere liberata 15 giorni prima, si sarebbero evitate due settimane di bombardamenti aerei, di cannoneggiamenti e si sarebbe impedita l’opera di distruzione dei guastatori tedeschi.
Quando nel pomeriggio del 16 dicembre le truppe neozelandesi attraversavano il Lamone camminando sui tralicci del ponte di Ferro abbattuto, le precedevano sei partigiani di Faenza di cui alcuni avevano imbracciato le armi fino dal 9 settembre 1943. E essi erano: Sergio Bandini, Enrico Benazzi, Edmondo Cisanti, Dino Ciani, Pietro Ferrucci, Livio Steri.
Nonostante l’avverso svolgimento dei fatti, il Distaccamento entrava egualmente in azione, combattendo a fianco degli alleati per ripulire la città dai franchi tiratori e per inseguire il nemico oltre la stazione ferroviaria, fino al Senio. Questo servizio di pattugliamento nella terra di nessuno durò tre giorni poi i partigiani vennero smobilitati.
La città era libera e si ripopolava, ma la guerra non era finita. La 28ª Brigata d’Assalto Garibaldi. “Mario Gordini“, comandata da Bulow, occupava una parte del fronte nella zona di Sant’Alberto, nello schieramento dell’VIII Armata. Allora 36 partigiani di Faenza andarono ad ingrossare quella formazione. Vi erano molti veterani, ma anche giovanissimi che non avevano mai maneggiato un fucile, fra cui Ercole Piazzini della classe 1929, il quale, per essere accolto nella Brigata, alterò la data del certificato di nascita (51).
41 Le basi principali dei GAP di Brisighella furono la Casa del Vento, Sulla strada Brisighella-Modigliana, nonché tutti i casolari della zona. Vanno inoltre ricordarti Berniamico, i Prati di S. Stefano e l’area di Cavina. I collegamenti con Faenza erano assicurati dalla staffetta Ines Vignoli, mentre fra la Casa del Vento e la formazione operativa Cavazzini Fortunato.
42 L. CASALI, Il Movimento di Liberazione di Ravenna, Ravenna, 1964.
43 Singolare è la costituzione delle squadre SAP di Casale di Modigliana comandate dal parroco, Don Angelo Savelli, inquadrate nello Strocchi.
44 L. BERGONZINI, La Lotta Armata, Bari, 1975.
45 Alla fine della guerra, per il ruolo svolto e la consistenza numerica (1007 uomini), la formazione Strocchi venne riconosciuta Brigata.
46 Rapporto di guerra di Mario Badiali, commissario politico, del 27-9-1944.
47 Rapporto di guerra di Mario Badiali, già citato.
48 Come abbiamo già visto in precedenza i prigionieri catturati dalla 36ª e dallo Strocchi furono circa 80. Un numero troppo consistente per non creare grossi problemi. Eppure, nonostante mancassero le condizioni per allestire campi di prigionia, prevalse l’opinione di tenerli in custodia per poi consegnarli agli alleati. La sorveglianza fu intensa, ma comunque insufficiente, così si verificarono diverse fughe, durante la notte. Costretti da necessità, i partigiani allora, non senza contrasti, decisero la soppressione dei nemici.
49 Le SAP, che si erano aggregate hai GAP, rientrarono alle basi di partenza. In parte, esse si inserirono delle squadre che entrarono in Faenza, ma soprattutto potenziarono i nuclei armati delle zone della periferia cittadina.
50 Cervellati era stato inviato dal PCI a dirigere il Partito (e a coordinare l’azione militare e i rapporti con gli altri partiti) per tutto il periodo in cui la città sarebbe rimasta isolata da Ravenna.
51 Comandante e commissario della compagnia erano rispettivamente e Enrico Benazzi e Natale Valla.
Lo sbocco vittorioso della Guerra di Liberazione diede un vigoroso impulso alla trasformazione democratica della società nazionale. Nonostante l’arretratezza dell’Italia meridionale, il referendum del 2 giugno 1946 scelse la Repubblica con uno scarto di due milioni di voti. Diciotto mesi dopo si promulgava la Carta Costituzionale, la quale, giustamente, è considerata fra le più avanzate d’Europa.
Le forze della restaurazione però non avevano disarmato.
L’unità dei partiti che componevano il CLN veniva rotta per dare vita a un governo moderato, e, contemporaneamente, si scindevano il PSI, la CGIL e l’ANPI.
Subito, nel 1948, cominciava la persecuzione contro i partigiani.
I fascisti che si erano macchiati di eccidi e di stragi, anche se condannati a trent’anni di detenzione, erano rimessi in libertà e reintegrati negli impieghi ottenuti per «meriti fascisti», e i partigiani prendevano il loro posto in carcere, sotto le accuse più assurde, in particolare per azioni di guerra contro le brigate nere.
Anche Faenza conobbe la repressione dei governi centristi. Fra le vittime possiamo ricordare: Baldini Sergio, Calderoni Ettore, Ciani Dino, Cisanti Edmondo, Ferretti Romualdo, Gazza William, Menichetti Guglielmo, Valla Natale e molti altri. La magistratura fatte rare eccezioni, non fu da meno della polizia e considerò… «ogni partigiano un delinquente in potenza» … infliggendo ai combattenti della nostra città circa cent’anni di carcere.
La resistenza, dopo il primo Risorgimento (ormai lontano nel tempo), Era l’unico valore morale e ideale sul quale l’Italia poteva e doveva contare per dare al popolo fiducia, per costruire una solida democrazia ed instaurare un’effettiva libertà. Si volle invece tentare di distruggerla e ci sono poi voluti 25 anni per riscoprirla.