Nato il 22 settembre 1916 ad Argenta, ivi residente nel 1943. Licenza elementare, commerciante.
Afro Rossi, «Amato», da Giacomo e Paola Ricci Maccarini; nato il 22 settembre 1916 ad Argenta (FE); ivi residente nel 1943. Licenza elementare. Commerciante.
Militò nella 36a brigata Bianconcini Garibaldi con funzione di comandante di compagnia.
Il 10 ottobre 1944 alla testa dei suoi uomini partì da Cà di Malanca e con un’altra compagnia tentò di sfondare l’accerchiamento tedesco per consentire alla brigata di attraversare la linea del fronte e ricongiungersi con gli alleati.
La battaglia ebbe esito sfortunato per la resistenza dei tedeschi e perché gli alleati bombardarono, per errore, le postazioni partigiane.
Dopo la Liberazione è stato nominato presidente dell’ANPI provinciale di Ferrara e, sino alla morte nel 2005, ha fatto parte del Comitato provinciale dell’Associazione.
La testimonianza di Amato Rossi registrata nel 1999 per il
video “memoria dalla Resistenza”
(clicca qui sotto e il file si aprirà direttamente sulla
prima testimonianza di Amato Rossi, segue una
seconda testimonianza al minuto 17:30 del video)
Riportiamo la sua testimonianza pubblicata in Luciano Bergonzini, La Resistenza a Bologna. Testimonianze e documenti, Volume V, pp. 222-224 e l’articolo pubblicato da Algide Vandini su “La Nuova Ferrara” il 24 gennaio 2006.
[Testimonianza scritta nel 1969] «La sera del 9 ottobre 1944 lo stato maggiore della 36a brigata si riunì per predisporre l’occupazione di Cà di Malanca e successivamente di tutta la zona di monte Romano. A questo compito furono scelte la mia compagnia e quella comandata da Pirì.
Riuniti gli uomini, spiegai loro quali erano gli obiettivi da raggiungere e i pericoli cui si andava incontro. Fu con grande soddisfazione che quei ragazzi riuniti in cerchio attorno a me, risposero in coro: « Finalmente si va a combattere! ».
In breve tempo ci preparammo. Date le ultime disposizioni, ci mettemmo in marcia, preceduti dalla compagnia di Pirì. Il trasferimento fu abbastanza lungo, durò quattro ore circa, poi sentimmo degli spari a distanza ravvicinata che ci misero in allarme.
Attendemmo l’alba sul chi vive, ma alle prime luci del giorno capimmo che i tedeschi si erano spostati sulle alture più a sud per evitare, evidentemente, uno scontro frontale coi partigiani. Occupammo così Ca’ di Malanca e l’immediata area circostante con una certa precauzione in quanto i tedeschi erano soliti lasciare delle mine in ogni luogo da loro precedentemente occupato. Ma tutto andò bene e, dopo avere organizzato un sufficiente servizio di vigilanza, gli uomini poterono riposare tranquillamente.
Il comandante Bob non tardò a giungere tra noi. Era solito, quando una compagnia si apprestava ad attaccare o ad essere attaccata, essere presente per incitare, anche con la sua sola presenza, gli uomini e per dirigere eventualmente il combattimento.
Mi chiese: «Com’è andata?»; poi: «com’è il luogo?». Risposi che non avevo ancora un’idea del posto e che aspettavo il giorno fatto per compiere una ricognizione. Più tardi mi avviai per una preliminare esplorazione della zona.
Ero già abbastanza lontano dalle nostre posizioni quando mi accorsi di essere seguito; mi voltai e per poco non scaricavo l’arma su un tedesco che mi stava alle spalle: era un prigioniero che tenevo nella compagnia perché mi ero affezionato a lui e diceva sempre che non voleva più fare la guerra contro di noi. Gli ordinai di tornare indietro, ma insistette tanto che fui costretto a lasciarlo venire.
Ci inoltrammo lungo un sentiero in direzione degli spari, un’altura dove sospettavo fossero appostati i tedeschi, considerando la direzione degli spari visti nella notte. E non tardai ad avere la certezza che avevo colpito a segno. Mentre stavo liberando il sentiero da un grosso ramo di castagno, una robusta spinta mi fece ruzzolare al suolo, mentre sentivo una scarica di mitraglia passarmi sopra la testa.
Da terra guardai il prigioniero, anzi il mio salvatore, che mi indicava una posizione in alto: mi alzai e vidi tra i cespugli alcuni tedeschi che stavano scrutando nella nostra direzione per accertarsi se eravamo stati colpiti.
Dopo aver osservato il terreno e il luogo, tornammo sui nostri passi e appena giunto in sede riferii a Bob dove, secondo me, si trovavano le posizioni tedesche.
Con Bob studiammo il piano d’attacco; fu disposto che il primo urto, e la conseguente conquista dell’altura, dovesse essere fatta da due gruppi delle due compagnie, cioè venti partigiani al mio comando e altri venti al comando di Boci, il vice comandante della compagnia di Pirì. Non fu difficile scegliere gli uomini perché tutti volevano fare parte dell’impresa. Giorgio, il mio vice comandante, chiese a Bob il permesso di sostituirmi nell’azione; insistette e allora il comandante mi ordinò di prendere il comando delle forze di rincalzo Poi mi si avvicinò Mao, vicecommissario di compagnia, pregandomi di lasciarlo andare. «Trovati tu stesso chi ti cede il posto!» gli dissi. E allora vidi Mao discutere con Neo, il commissario, e poi fare pari e dispari. Fu così che anche Mao partì col gruppo di testa.
Lasciata Cà di Malanca, Boci, che guidava il gruppo avanzato, discese lungo la sella che separa una collinetta che si trova presso la casa situata sull’altura dove c’erano i tedeschi, seguito dagli uomini, in fila indiana. Ma nel momento stesso in cui Boci giungeva sotto il monte, i tedeschi, favoriti dalla posizione, aprirono il fuoco con una mitragliatrice, mentre, con una seconda, tenevano a distanza il gruppo di rincalzo. Boci, Meo e Giorgio, che si trovavano molto avanzati, riuscirono a fare fronte ai primi assalti, colpendo al fianco i tedeschi, mentre gli altri partigiani, più arretrati, dovettero tenersi riparati dietro gli alberi e le rocce.
Boci chiamò i suoi uomini, li incitò ad avanzare, ma il fuoco della mitraglia era così intenso che non potevano fare un solo passo senza il pericolo di farsi massacrare.
La nostra mitragliatrice, piazzata sulla collinetta di fianco alla casa, che doveva proteggere l’avanzata, sparò tre colpi e poi s’inceppò e Giorgio cadde colpito a morte e Mao s’accasciò sul sentiero gravemente ferito.
Rimase soltanto Boci a tenere testa, col suo « Sten », alla valanga dei tedeschi che scendevano dall’altura; come li vedeva arrivare, a tiro avvicinato, li falciava inesorabilmente. Poi scorse, più in alto, un soldato coperto da un telo da tenda che gesticolava e dava ordini; cercò di colpirlo una volta, una seconda, poi finalmente lo vide cadere e, come per incanto, i tedeschi non scesero più. Boci rimase al suo posto, sempre all’erta, e intanto pensava per quale motivo non aveva sentito sparare le nostre mitragliatrici. La seconda mitraglia era stata colpita dal mortaio e Bill era rimasto ferito. Attese ancora e poi ordinò agli uomini di ripiegare, chiedendo a Slec di aiutarlo a portare Mao, che era ancora vivo.
Nel frattempo i tedeschi tentarono di attaccare Ca’ di Malanca per altra strada, ma ebbero il loro avere dal resto delle compagnie appostate davanti alla casa e si ritirarono.
Nel pomeriggio l’artiglieria inglese martellò con insistenza le nostre posizioni a Ca’ di Malanca e due giovani partigiani, Todt e Slec, ancora lui, sfidarono le cannonate per issare una bandiera tricolore sul tetto. Allora l’artiglieria alleata cessò il bombardamento, ma cominciò allora quella tedesca che continuò fino a sera.
Vista l’impossibilità di superare le linee tedesche, in quanto troppo ben tenute, ricuperammo il corpo di Giorgio che seppellimmo nei pressi della casa, e abbandonammo Ca’ di Malanca per un nuovo schieramento. In questa prima fase della battaglia di Ca’ di Malanca erano caduti Giorgio e Ivan, un soldato sovietico, mentre Mao e gli altri feriti, catturati in seguito dai tedeschi quando occuparono l’infermeria, finirono fucilati.
Nei giorni successivi la battaglia ebbe nuovi e gravi sviluppi e terminò solo a metà ottobre col congiungimento delle nostre forze con gli alleati».
Da “La Nuova Ferrara, 24 gennaio 2006
Addio, Amato
Si è spento poco più di un mese fa, all’età di 89 anni, Amato, Afro Rossi all’anagrafe, comandante partigiano, vero combattente per la causa della Libertà e della Democrazia nell’Italia occupata dai nazi-fascisti, un filese di cui andare orgogliosi, un amico.
Era salito in montagna nella primavera del ’44 compiendo convintamente la scelta di combattere in armi gli occupanti tedeschi ed i collaborazionisti repubblichini. Complessivamente furono sei i filesi della ‘Bianconcini” che proprio Amato, responsabile locale del Partito Comunista, aveva mobilitato. Con lui: Maurelio Tirapani (Böci), Vincenzo Natali (Cencio) e tre giovani che non tornarono più alle loro famiglie: Pietro Liverani (Pirl), Ainis Tirapani (Baröni) e Mario Guerra (Mao).
Amato partecipò a molte azioni che la 36ª Brigata Garibaldi ‘Bianconcini” compi nell’estate del ’44, dopo la riorganizzazione che aveva seguito i rastrellamenti di fine maggio e dopo che le fila partigiane erano notevolmente cresciute di numero. Fu scelto da Bob (Luigi Tinti), Comandante di Brigata, per guidare la 14ª compagnia, il reparto che poi, secondo le sue direttive, dovette attaccare i tedeschi a Ca’ di Malanca la mattina del 10 ottobre del 1944, nel tentativo di congiungersi all’esercito alleato.
Fu una battaglia sanguinosa, quella cosiddetta di Purocielo, che durò alcuni giorni; una battaglia che vide la Compagnia di Amato battersi strenuamente nonostante le molte perdite. Fallito l’obiettivo divenne fondamentale, per tutta la brigata, lo spostamento in altro settore, al fine di salvare il grosso degli effettivi dagli attacchi tedeschi. Spezzatasi in due tronconi la brigata sotto uno di questi attacchi, Amato comandò il secondo gruppo di circa 300 uomini riuscendo, dopo alcuni giorni, a raggiungere gli alleati a San Benedetto in Alpe, senza ulteriori perdite.
Era l’ultimo dei partigiani filesi della Bianconcini ancora in vita, Amato, e ricordava spesso con commozione i suoi caduti, in suoi compagni della Resistenza.
Ricordava i momento delle scelte dolorose, quando ad esempio si trattò di lasciare in consegna i feriti all’infermeria partigiana, poi barbaramente trucidata dai fascisti assieme ai feriti. Ricordava soprattutto lo spirito e la vita di gruppo sui monti, i rapporti quasi paritari fra il comandante ed i suoi combattenti, l’importanza che rivestiva il «commissario», che lui definiva «la mamma di compagnia», ricordi lontani, ma ancora vivi, come la fiamma che arde sempre nel cuore generoso.
Lo intervistai all’inizio del 2004, quando stava ancora molto bene, perché il valore delle sue memorie non venisse disperso, perché il gesto di quei sei giovani partiti dalle pianure della bassa per andare a combattere su monti lontani, che, quando il cielo è terso, si intravedono appena sopra la linea degli argini del Reno, fosse ricordato degnamente, nel 60º anniversario di quegli avvenimenti.
Non ho provato mai alcuna sorpresa nel sentire dalla sua viva voce il racconto di quei giorni.
Ho sempre conosciuto Amato per come me lo descriveva mio padre, anch’egli un partigiano che aveva perso la mamma. Agida Cavalli, assassinata dai fascisti nel febbraio del ’44 mentre cercava di farlo fuggire dalla casa accerchiata dalle camicie nere. Ebbene, ricordava mio padre, nei giorni in cui non si aveva neppure il permesso di seppellire la nonna, perché i fascisti pretendevano un’assurda assunzione di responsabilità della famiglia, quando per chiunque era già un azzardo buttare uno sguardo pietoso verso la casa dove si piangeva una cosi triste ed infame tragedia, fu proprio Amato, il solo coraggioso Amato che, senza paura, infilò la porta di casa per confortare una famiglia colpita al cuore, incurante di ogni conseguenza.
Nessun stupore, quindi, né per ciò che, in tutta modestia ed umiltà, ha saputo dare in gioventù per la Libertà d’Italia sui monti della Romagna, né per il toccante ed espresso desiderio di chiedere che, a morte avvenuta, le proprie ceneri siano per sempre sparse sui monti di Cà Malanca, là dove combattè aspramente e dove riposano molti suoi caduti.
Addio Amato Rossi, filese, partigiano e patriota. Eri uno di noi.
* Algide Vandini, segretario della Sezione Anpi di Filo, è autore di numerosi testi dedicati alla storia ed alla folclore della Romagna. La sua pubblicazione più recente ha come titolo ‘Sotto l’ombra di un bel fior” (Faenza, Edit., 2005) ed è dedicata alle vicende alla 36ª Brigata Garibaldi che operò nei dintorni di Brisighella e sui monti della Romagna.