Giuseppe “Furio” Varani

 

Giuseppe Varani

Giuseppe Varani, «Furio», nato l’1 maggio 1923 a Loiano. Nel 1943 residente a San Lazzaro di Savena. Diploma di avviamento professionale. Tornitore all’OMA.
Prestò servizio militare in marina a Venezia dal dicembre 1942 all’8 settembre 1943.
Dopo l’inizio della lotta di liberazione fu uno dei primi a organizzare politicamente i compagni di lavoro all’OMA e tra gli organizzatori dello sciopero aziendale l’1 marzo 1944, nel quadro dello sciopero politico provinciale. Fu uno dei promotori del CLN di San Lazzaro di Savena.
Nell’estate, con un gruppo di giovani, raggiunse la 36ª brg Bianconcini Garibaldi e prese parte ai principali combattimenti che questa formazione sostenne sull’Appennino tosco-romagnolo.
Il 17 luglio 1944 il suo btg respinse l’assalto fascista al comando partigiano sistemato a Casetta di Tiara (Firenzuola – FI).
Il 9 agosto, mentre prendeva parte al combattimento per la difesa della Bastia, cadde in un burrone e si fratturò il piede sinistro. Curato da Giovanni Battista Palmieri, anche se zoppicante il 10 ottobre prese parte al combattimento a Monte Colombo.
Il 19 ottobre, grazie all’aiuto dei compagni, attraversò la linea del fronte e fu ricoverato prima all’ospedale di Firenze, poi a quello di Perugia e, infine, al Celio a Roma. Il 25 maggio 1945 fu trasferito al Putti di Bologna dove subì l’ultimo di una lunga serie di dolorosi interventi.

[Testimonianza rilasciata nel 1970. Impiegato comunale, residente a San Lazzaro di Savena] Sono entrato nella Resistenza all’inizio dell’anno 1944. In quel tempo lavoravo all’Officina « OMA » di Pontevecchio, in qualità di tornitore meccanico. I titolari dell’azienda non ebbero alcuna difficoltà per farmi avere l’esonero da nuove chiamate alle armi, dopo il tragico sbandamento delle forze armate italiane dell’8 settembre 1943. Facevo naturalmente il loro interesse, anche perché, pur essendo giovane, il mio lavoro lo svolgevo con una certa capacità e competenza, risultati questi di una qualificazione professionale che mi ero formato, con molti sacrifici, frequentando per tre anni dei corsi serali di lavoro (addestramento, qualificazione e specializzazione), presso l’Istituto « Aldini-Valeriani » di Bologna, al termine dei quali ottenni il diploma di operaio specializzato.
In officina ebbi i primi contatti con alcuni compagni della Resistenza: Enzo Fustini, Guido Castellari, Antonio Mezzaqui, Armandino Grossi, Enrico Zaniboni, Giorgio Righi, ed altri. Questi compagni mi fecero comprendere la gravita del momento e la grande importanza di una nostra adesione al movimento partigiano.
Determinante per la mia scelta, in quel delicato momento, fu anche l’opera di convincimento paziente e costante di uno sfollato che era venuto ad abitare nei pressi di casa mia, Guido Muzzi, antifascista di vecchia data, che riuscì a togliermi tutti i dubbi che ancora, naturalmente, avevo in testa essendo nato e cresciuto in pieno regime di dittatura fascista.
Dal compagno Guido Muzzi, oltre alle convincenti ed esaurienti lezioni di antifascismo, ricevetti anche dei libri molto interessanti, proibiti dal regime di allora: « La Madre » di Massimo Gorki, « II Tallone di ferro » di Jack London, un volume de « II Capitale » di Carlo Marx ed altri libri che tenevo ben nascosti sotto il materasso del mio letto, e che leggevo un po’ alla volta, di notte, prima di addormentarmi. Ricordo che queste letture mi entusiasmarono.
Con i compagni di lavoro iniziammo qualche piccola attività per la Resistenza. Andavamo fuori di notte, a gruppi, per attaccare manifesti che inneggiavano alla Resistenza,
che invitavano i giovani a non presentarsi ai repubblichini, a darsi alla macchia ed a passare fra i partigiani. Facevamo anche delle scritte, col minio rosso, sui muri, e spargevamo nelle strade dei chiodi a tre punte, che costruivamo di nascosto, in officina, e che bloccavano i convogli di automezzi nazifascisti. Ricordo i commenti che la popolazione faceva leggendo quei manifesti e quelle scritte sui muri. Era una propaganda molto interessante ed efficace, ed otteneva degli effetti persino esagerati. Infatti si sentiva dire che i partigiani erano scesi dalle montagne per affiggere i manifesti e per fare quelle scritte sui muri. Mescolati alla popolazione e udendo quei commenti, noi quasi scoppiavamo dalla gioia e dalla soddisfazione.
Nel mese di marzo 1944 riuscimmo ad organizzare, all’interno della fabbrica, il primo sciopero contro la guerra fascista. Uscimmo tutti fuori e, con cartelli, ci portammo dinnanzi al Calzaturificio « Montanari ». dove era occupata prevalentemente una mano d’opera femminile, ed assieme a queste donne formammo un corteo. Percorremmo la via Mazzini fino alla Porta e qui un oratore improvvisato tenne un breve comizio. Il mio morale e quello dei compagni era salito alle stelle.
Successivamente anche a San Lazzaro di Savena venne costituita la prima organizzazione della Resistenza. Fu formato il Comitato di Liberazione Nazionale dentro il rifugio antiaereo, vicino a casa mia. Era presente un compagno inviato da Bologna, che non avevo mai visto prima d’allora, ma che parlava molto bene, con tanta chiarezza. Questo Comitato venne formato oltre che dai compagni Guido Muzzi ed Enzo Fustini, anche da Armando Piazzi, Bruno Maccaferri, Guido Romagnoli, Athos Buriani e Renato Medici. A me venne affidato l’incarico di reperire i giovani da arruolare fra i partigiani. Mi misi immediatamente all’opera e trovai subito dei validi ed ottimi collaboratori in giovanissimi come Sergio Sasdelli, Renato Benfenati, Valentino Masetti, Giuseppe Volta ed altri amici.
All’inizio del mese di giugno 1944 espressi al CLN il desiderio di essere incorporato in una brigata partigiana che operava sulle nostre colline, per poter combattere con armi alla mano il fascismo ed il nazismo. Le piccole cose che avevo svolto fino allora, seppure importanti, mi parevano molto scarse. Questo mio desiderio fu accolto dal CLN, il quale colse l’occasione per affidarmi una ventina di giovani, anch’essi da incorporare: erano in gran parte giovani renitenti alla leva, che fino allora erano stati nascosti, ma che desideravano entrare nelle formazioni partigiane
armate.
Dovevamo incontrarci con una staffetta a Savazza di Monterenzio, e diedi a questi giovani l’appuntamento un mattino, all’alba, sul greto del fiume Idice, in località Castel de’ Britti. Percorremmo, a gruppi, il corso del fiume fino a Savazza,
dove ci attendeva la staffetta Rossana De Giovanni la quale, assieme alla sua cugina Silvana, la sera successiva, in casa della famiglia Cevenini, nei pressi del ponte di Cà di Lavacchio, ci fece incontrare con una compagnia partigiana comandata da Guerrino.
Una grande delusione ci accolse: non potevamo essere incorporati perché eravamo tutti disarmati e nella brigata partigiana non vi erano armi. Guerrino ci consigliò di recarci, la notte successiva, nella vallata del Zena, nei pressi di Botteghino di Zocca, dove operava un’altra brigata partigiana che, a suo dire, aveva armi in abbondanza.
Rossana e Silvana ci accompagnarono in un vecchio casolare di montagna, nei pressi di Cà di Bertano, per trascorrervi la notte ed il giorno successivo. Eravamo però quasi senza viveri. Guerrino ci diede una coppa di maiale ed alcuni salami, ma eravamo in una ventina e questo non bastava. Fu così che io e Vulcano (Italo Negrini) scendemmo in paese, a Bisano, per trovare qualcosa da mangiare. Veramente commovente fu l’accoglienza di quei poveri montanari che facevano a gara per procurarci quanto chiedavamo. Rientrammo a Cà di Bertano carichi come muli: un sacco di pane ancora caldo, appena sfornato, un mezzo prosciutto, alcuni fiaschi di vino, indumenti ed altre cose.
All’imbrunire ci mettemmo in cammino per raggiungere Botteghino di Zocca, come consigliatoci da Guerrino. Arrivati a Castelnuovo cominciò a cadere una fitta pioggia che continuò anche per tutto il giorno successivo. Fummo generosamente ospitati dai contadini poveri di quel piccolo paese, che misero a nostra disposizione le stalle ed i fienili, dove ci riparammo dalla pioggia e ci riposammo.
Giungemmo a Botteghino di Zocca dopo due giorni, piuttosto malmessi, e qui provammo la seconda delusione: nella zona non vi erano i partigiani. Erano partiti il giorno precedente e non riuscimmo a sapere dove si erano trasferiti. I compagni cominciarono a dimostrare sfiducia e demoralizzazione. Anch’io rimasi molto male. Qualcuno cominciò ad esprimere la volontà di rientrare a casa, per decidere il da farsi. Altri mi dissero che, non potendo assolutamente ritornare in pianura perché renitenti alla chiamata di leva, sarebbero rimasti nascosti nella zona. Io, invece, mi proposi di raggiungere, da solo, Castel del Rio, dove, con certezza, sapevo che esisteva una base della 36a brigata Garibaldi, Promisi a questi giovani che appena raggiunta questa brigata avrei fatto tutto il possibile, attraverso staffette, per aprire
a loro la stessa strada.
Salutati i compagni, con questa promessa partii immediatamente, e dopo un’intera giornata di cammino, raggiunsi Visignano, sotto il Monte La Fine. Qui entrai nell’osteria del paese per mangiare qualcosa e per riposarmi. Con stupore notai seduti ad un tavolo, intenti a bere, tre ragazzi con zaino ed equipaggiamento da montagna, che parlavano con accento ferrarese. Attaccai discorso con una certa prudenza, e mi dissero che anche loro cercavano di raggiungere la brigata. Uno di questi si chiamava Biagio, ed era un invalido di guerra. Nonostante l’infermità contratta durante il servizio militare prestato nella marina, aveva deciso di combattere ancora come partigiano. Mi unii a loro e fummo ospiti, per un paio di giorni, del parroco di Visignano, che era un prezioso collaboratore della Resistenza, unitamente al parroco di Tirli, e, attraverso loro, raggiungemmo un reparto della 36a brigata Garibaldi che era dislocato nei pressi del monte Faggiola.
Fummo condotti al comando della brigata, e interrogati dal « Moro », il commissario politico, al quale consegnammo i documenti personali che furono immediatamente distrutti. Consegnammo pure il danaro in nostro possesso, e ci fu consentito di tenere soltanto 150 lire in tasca. I tre ferraresi furono assegnati alla compagnia di Marco ed io a quella del Negus. Poiché scarseggiavano le armi, io rimasi qualche giorno disarmato. La brigata in quei giorni ricevette un aviolancio di armi, e così ebbi la possibilità di avere un « parabello », dotato di sei caricatori, ed
un sacchetto di pallottole.
Durante l’interrogatorio al comando di brigata informai il Moro dei compagni che avevo lasciato al Botteghino di Zocca. Fu con grande mia soddisfazione che nei giorni che seguirono vidi arrivare la quasi totalità di questi. Vi immaginate, all’incontro, la nostra soddisfazione. Ne mancavano soltanto tre. Questi avevano preferito rimanere nascosti nelle loro case. Ero molto contento perché la prima missione che mi era stata affidata l’avevo portata a compimento, seppure superando molte difficoltà.
Dopo il lancio di armi, la brigata si trasferì alla Bastia, e la compagnia del Negus, della quale facevo parte, si accampò a Diacci, una casa colonica posta all’estremo sud dello schieramento. Qui però, fino ad allora, scontri non ve ne furono, e si faceva soltanto il servizio di guardia e di pattuglia sul monte Carzolano. Un giorno arrivò un ordine dal comando di trasferirci alla Casetta di Tiara, una borgata di poche case attorno alla chiesa, posta ad ovest dello schieramento della
brigata, a quasi tre chilometri di distanza dalla strada Montanara che unisce Firenze a Imola, attraverso l’Appennino.
Giungemmo alla Casetta di Tiara una domenica sera e la popolazione ci accolse festosamente. Tutti ci offrirono qualcosa: vino, pane, sigarette. Per una settimana ci fu calma, e si continuava con il consueto servizio di guardia e di pattuglia. Nei momenti di pausa si organizzava « l’ora politica ». C’era una relazione introduttiva di Tagano, che era il commissario politico di compagnia, alla quale faceva seguito la discussione. I partigiani di qualsiasi fede politica, ed in tante occasioni anche gli abitanti del luogo, dicevano la loro opinione, ponevano delle domande sulla situazione politica, e, a volte, si affrontavano anche delle questioni storiche e teoriche. Era aspirazione unanime di fare tutto il possibile affinchè la guerra finisse al più presto, di ritornare alle nostre case, di iniziare la ricostruzione del Paese dalle rovine della guerra e di organizzare la società umana in un sistema di uguaglianza, di giustizia e di fraternità. Volevamo tutti un modo di vivere diverso.
La mattina del 17 luglio, era un lunedì, venne l’attacco alla nostra compagnia, e posso dire che quello fu il mio battesimo del fuoco. Non si trattò di una semplice puntata, ma di un vero e proprio attacco in forze con l’obiettivo di rompere le nostre linee e di disperdere la brigata. La nostra compagnia, in quel momento, era formata da circa 40 partigiani, e si trovava a circa un’ora di cammino dalle compagnie di Simì e di Guerrino, ed a circa tre ore dalla sede del comando di brigata. La colonna nemica, forte di circa 200 fra militi repubblichini e tedeschi, era stata fatta precedere da una trentina di fascisti camuffati da partigiani, col fazzoletto rosso al collo, che avevano il compito evidente di trarci in inganno. Passarono dalla Cà di Molinaccio, che quel giorno era abitata da due vecchi soli, e chiesero se vi fossero dei partigiani nei dintorni. Ne ebbero, naturalmente, una risposta negativa. Allora cominciarono ad avanzare con ostentata disinvoltura, fino al paese. Entrarono rumorosamente nell’osteria e iniziarono a gridare: « Dove sono i partigiani? Perché non si fanno vivi? » e spacconate simili, fino a quando non arrivò la colonna e tutto il paese fu presidiato dalle forze nemiche che procedevano, però, con molta cautela, in stato di allarme.
Nessuno di noi, in quel momento, si trovava nel centro dell’abitato. Il nostro comandante, il Negus, che era stato informato dai contadini dell’imminente attacco, ci schierò per il combattimento. Fece appostare il grosso della compagnia su un costone, protetto dalla macchia, che dominava il paese, ordinando alla squadra comandata da Nino, della quale io stesso facevo parte con Avio, Pozzetti, Barone ed Alvaro, di appostarci ad una quindicina di metri dalla casa che era la sede della nostra compagnia, ordinandoci, inoltre, di non aprire il fuoco se non dopo di lui.
I fascisti sfondarono la porta con dei tronchi di albero e, trovando all’interno traccia della nostra occupazione, si apprestarono ad incendiare la casa. Erano vicinissimi a noi, e udivamo tutto ciò che dicevano. Qualcuno parlava con accento meridionale.
Forse si trattava di qualche canaglia che aveva dovuto rifugiarsi al nord in seguito all’avanzata delle truppe alleate.
Il Negus non permise loro di incendiare la casa. Appena si accorse del pericolo d’incendio, si alzò in piedi di scatto, su una roccia completamente scoperta, ed aprì il fuoco con il suo « parabello », sparando con una sola raffica un intero caricatore.
Noi, che eravamo a brevissima distanza dai nemici, lo imitammo: Nino col mitragliatore e noi con le nostre armi in dotazione. I pochi superstiti nemici per un attimo abbozzarono un tentativo di resistenza, poi cambiarono subito idea e decisero di darsi alla fuga, che fu cosi precipitosa che quasi abbandonavano a terra il loro comandante ferito alla testa e ad una spalla. Un gruppo composto da una ventina di militi della brigata nera riuscì, però, a metterci in difficoltà nel ripiegamento verso il luogo occupato dalla compagnia. Ci avevano preceduti e ci sbarravano il passo col fuoco delle loro armi. Le cose si stavano mettendo male per noi, quando, improvvisamente, udimmo una lunga raffica di un nostro mitragliatore, ed i brigatisti neri in parte caddero colpiti, e gli altri fuggirono precipitosamente. Era stato Bari, il tiratore scelto della nostra compagnia, che era riuscito, sebbene fosse distante, a seguire l’azione nemica ed a stroncarla, permettendoci di porci in salvo e di rientrare in compagnia. In quella occasione Bari fu colpito di striscio al mento da una pallottola nemica che gli forò anche il giubbotto, all’altezza della spalla sinistra.
Il contrattacco della nostra compagnia fu così improvviso che le compagnie di Simì e di Guerrino, che erano accorse in nostro aiuto, giunsero quando avevamo già cacciati i nemici dalla Casetta di Tiara.
Malgrado la nostra pronta azione di sorpresa, i fascisti erano però riusciti ad incendiare la chiesa del paese ed a rubare in canonica i preziosi che i parrocchiani e gli sfollati avevano affidato alla custodia del parroco, don Cinelli. Nella loro precipitosa ritirata, passando dalla Cà di Molinaccio, assassinarono i due vecchietti e bruciarono i loro corpi in cucina, dopo aver frettolosamente rubato tutto ciò che si trovava alla loro portata di mano. Altri tentativi di incendi, saccheggi e distruzioni furono impediti dalla nostra pronta irruzione in paese.
Nel pomeriggio dello stesso giorno i nazifascisti, sonoramente sconfitti nella mattinata, tentarono un altro attacco ad est del nostro schieramento. Una lunga colonna formata da circa 400 uomini, dotati anche di mortai, proveniente da Palazzuolo, si dirigeva verso le nostre posizioni sulla Bastia. Fu ancora la nostra compagnia a respingere anche questo attacco, infliggendo gravissime perdite al nemico, e recuperando un ingente quantitativo di armi e munizioni. Da parte nostra avemmo solo un ferito lieve. Il capo squadra Peppino (Giuseppe Calzolari) ebbe una pallottola nemica che gli si conficcò nel polpaccio di una gamba. Questa gli fu estratta prontamente dai medici della nostra infermeria, e dopo qualche giorno era già guarito completamente. La compagnia del Negus quel giorno ebbe un encomio solenne, e fu citata ad esempio nel bollettino della brigata.
Verso la fine del mese di luglio la nostra brigata si rafforzò numericamente. L’assorbimento del battaglione «Ravenna» portò i nostri effettivi a circa 1.200 uomini. Questo battaglione, formato prevalentemente da compagni romagnoli di Faenza, Castel Bolognese, Lugo, Massalombarda, Cotignola, Russi e Ravenna, fino allora aveva operato in modo autonomo e il congiungimento con la nostra brigata era avvenuto d’intesa col CUMER (Comando Unico Militare Emilia-Romagna).
Il battaglione « Ravenna » fu frazionato in compagnie, comandate rispettivamente da Gino (Gino Agostini di Lugo), da Kaki (Dato Cavallazzi, di Castel Bolognese) e da Ribelle di Imola. Erano compagni molto coraggiosi e di notevole esperienza.
Non dimenticherò mai il compagno Gino Monti di Faenza, commissario politico del battaglione, perseguitato politico antifascista ed oratore eccezionale. I suoi discorsi, fatti con parole semplici, ma molto convincenti, mi lasciavano incantato. Era un vero trascinatore.
Gli uomini del battaglione « Ravenna » erano però male armati, ed erano sprovvisti di armi automatiche. Il Comando di brigata decise allora di trasferire in queste compagnie uomini dotati di tali armi. Io, che ero armato di un parabello, fui trasferito nella compagnia di Kaki, ed ebbi così la possibilità di conoscere questi compagni romagnoli che mi accolsero molto fraternamente. La compagnia aveva la sua base alla Faina, un vecchio casolare a poche centinaia di metri dal cimone della Bastia, e controllava una posizione importante dello schieramento della brigata in quanto si presumeva che eventuali attacchi nemici avvenissero da quella parte perché il versante est si affacciava su Palazzuolo e sulla strada Casolana.
Trascorsero alcuni giorni tranquilli; effettuavamo il consueto servizio di guardia sulla Bastia e di pattuglia nella zona circostante. La mattina del 9 agosto fummo attaccati proprio da quella parte. Nella notte i nazifascisti, protetti dall’oscurità dalla nebbia, che avvolgeva la cima del monte, erano riusciti a portarsi a poche centinaia di metri sotto il nostro schieramento, piazzandovi anche alcuni mortai. Il combattimento iniziò all’alba e si protrasse fino verso mezzogiorno. Le nostre posizioni furono strenuamente difese, e passammo anche al contrattacco. Il nemico, molto superiore in uomini e mezzi, sembrava fosse disperso. Dopo alcune ore il comando di brigata decise di ritirare il grosso delle compagnie schierate nelle posizioni, lasciandovi però alcune grosse pattuglie per una attenta vigilanza. Io rimasi
in postazione con una di queste pattuglie.
I nazifascisti non erano però tutti fuggiti. Approfittando della giornata nebbiosa si erano ulteriormente rafforzati con nuovi effettivi e s’erano ammassati proprio sotto il nostro schieramento. Nel tardo pomeriggio iniziarono un fuoco infernale anche con mortai che sparavano sulle nostre postazioni. Noi resistemmo strenuamente, rispondendo col fuoco di tutte le nostre armi. Un nostro mitragliatore si inceppò per surriscaldamento della canna. I nemici erano giunti a pochi metri da noi, e allora sganciammo anche tutte le bombe a mano che avevamo in dotazione. Fummo costretti ad un ripiegamento dalle nostre postazioni sulle quali balzarono immediatamente i nazifascisti che tentarono di falciarci con le raffiche dei loro mitragliatori.
Fu in questo combattimento che io precipitai in un burrone, sotto la Faina, profondo una quindicina di metri, fratturandomi il piede sinistro. Sul momento pensavo che si trattasse di una semplice distorsione, ma dal lancinante dolore e dall’immediato gonfiore del piede, che la scarpa non riusciva più a contenere, capii che si trattava di cosa più grave. Non ero assolutamente in grado di reggermi in piedi, e mi trascinavo in avanti, con le mani e con le ginocchia. Nascosi il mio « parabello » con i caricatori e le munizioni in un luogo sicuro, perché non ero in grado di portarlo, e rimasi armato della sola pistola. Controllai scrupolosamente quante pallottole contenevano i due caricatori, con l’intento di serbare l’ultima per me, in caso di disperata necessità. Fui soccorso in serata da Teo (Timoteo Romani di Imola) e da altri compagni della compagnia di Simì, che era accampata a Pian dell’Aiara, dove aveva sede anche la nostra infcrmeria. AlPinfermeria della brigata — diretta dal dott. Romeo Giordano — ricevetti le prime cure da Gianni Palmieri, il quale mi fasciò molto stretto il piede e la gamba con una fascia molto robusta, steccandomi la parte con della scorza d’albero molto resistente, legata con dello spago, come una rozza ingessatura.
II comando di brigata mobilitò nella notte alcune compagnie, e con il comandante Bob in testa, il cimone della Bastia fu riconquistato ed il nemico fu ricacciato oltre il nostro schieramento. Fu quella la battaglia della Bastia che ebbe fasi alterne e che, alla fine, si concluse con una piena vittoria della nostra brigata. Il giorno dopo alcuni compagni, dietro mie precise indicazioni, recuperarono il mio « parabello » con i caricatori e le munizioni.
Nei giorni che seguirono la brigata fu nuovamente attaccata. Questa volta i nazifascisti, con dei cannoni, mortai e mitragliere da 20 mm. piazzati sul Giogo, nella linea « Gotica », sparavano in continuazione sulle nostre postazioni del monte Carzolano e su tutte le case circostanti. I proiettili giunsero anche a Cà di Vestro, sede del comando di brigata. Venne dato l’ordine di abbandonare tutte e case e di riparare nella boscaglia. Anche l’infermeria dove ero ricoverato abbandonò la casa di Pian dell’Aiara, presa di mira dalle cannonate. Io fui sistemato, assieme ad altri feriti, in mezzo ad un bosco, ed i medici si prodigarono nel prestarci tutte le cure necessarie.
Le intenzioni dei nazifascisti erano più che evidenti: volevano a tutti i costi disperdere la nostra brigata, sparandoci addosso da lontano, senza rischiare di venire all’attacco. Rimanere ed accettare il combattimento in quelle condizioni sarebbe stato un vero suicidio. Fatte le debite valutazioni, il nostro Comando, dopo due giorni, decise di abbandonare la zona. Eravamo in diversi feriti e fummo sistemati un po’ ovunque. Assieme a Josef, un compagno cecoslovacco ferito anch’esso ad una gamba, fui ospitato da una famiglia di contadini, nostri preziosi collaboratori, a Rimirara, un casolare sotto il monte Faggiola. La brigata intanto si trasferì nella zona di Fornazzano, in una valle oltre la strada di Casola Valsenio.
Io e Josef rimanemmo a Rimirara 25 giorni, amorevolmente custoditi dalla famiglia che ci ospitava. Ogni tanto ricevavamo visite dai medici della nostra infermeria i quali, sfidando innumerevoli rischi e pericoli, si recavano presso di noi per prestarci le necessarie cure. Trascorso questo periodo di riposo la mia frattura al piede sembrava che si fosse consolidata e allora, a dorso di mulo, raggiunsi nuovamente la brigata e rientrai in compagnia. Non potevo ancora reggermi in piedi molto bene, ma cercavo di rendermi utile ugualmente facendomi assegnare dei turni di guardia seduto nel folto dei boschi, o coadiuvando i compagni addetti alla cucina.
La mattina del 13 settembre vi fu un nuovo attacco. I nazifascisti ci avevano nuovamente individuato, e provenendo dalla strada Casolana puntarono direttamente sulle nostre postazioni sul monte Pianaccino, dopo aver battuto la zona da noi occupata con innumerevoli proiettili sparati da mezzi semoventi piazzati nella strada, e da mortai. Fu la compagnia di Kaki alla quale appartenevo, e quelle di Sergio e di Amilcare che sostennero il primo urto. L’arrivo delle compagnie di Marco, di Attila, ed altre, prontamente sopraggiunte di rinforzo, unitamente al comandante di brigata Bob, ci diedero la possibilità di contrattaccare i nemici, che furono inseguiti fino al fondo valle, causando loro notevoli perdite in uomini e mezzi. Intervennero anche due caccia alleati a darci una mano. Passavano per caso e, forse vedendo nella strada il movimento di mezzi nazisti, si abbassarono a mitragliarli.
A seguito di questo nuovo attacco, il comando di brigata decise un nuovo trasferimento.
Questa volta fu scelta la zona di Fontana Moneta, una vallata nei pressi di Marradi. Io dovetti nuovamente essere ricoverato alla infcrmeria in quanto il mio piede si era nuovamente gonfiato e non riuscivo più a reggermi in piedi.
In questo frattempo avvennero dei fatti molto importanti. Per ordine del CUMER la brigata venne frazionata in quattro battaglioni. Si riteneva imminente l’avanzata delle truppe alleate per liberare Bologna e tutte le città dell’Emilia e Romagna, e la nostra brigata aveva il compito di precedere gli alleati nella liberazione delle nostre città. Al 1° battaglione, comandato da Libero, fu assegnato il compito di liberare i paesi della vallata del Santerno e si trasferì nella zona di monte La Fine.
Il 2° battaglione, comandato da Ivo, doveva liberare Faenza. Il 3° battaglione, comandato da Carlo, doveva scendere a Imola e per questo si trasferì nella zona di monte Battaglia. Il 4° battaglione, comandato da Guerrino, che doveva anch’esso scendere a Faenza, si trasferì nella zona di Purocielo. I piani del CUMER, purtroppo, non coincisero con i piani degli alleati. La prevista avanzata alleata prima dell’inverno non ebbe luogo, e cruenti, sanguinosi scontri furono sostenuti dai quattro battaglioni contro preponderanti forze nazi-fasciste a monte Battaglia, a Purocielo ed a Cà di Guzzo.
Col 4° battaglione, che si trasferì a Purocielo, rimase anche l’infermeria, che fu sistemata nella Canonica della Chiesa. Io vi rimasi ricoverato ancora una settimana, poi, sentendomi meglio, chiesi ed ottenni di essere inviato alla compagnia di Ettore, nella quale militavano diversi compagni di San Lazzaro di Savena.
Purocielo si trova a nord di Cà di Malanca, sulle colline di Brisighella. Dai pendii si scorgeva, anche ad occhio nudo, la pianura di Faenza. Ci fu qualche giorno di calma.
La compagnia di Ettore era accampata sotto monte Colombo, nella terza casa dopo Cà di Gostino, dove aveva la sua sede il comando di brigata.
All’alba del 10 ottobre fummo attaccati di sorpresa. I nazifascisti erano riusciti a giungere fino nei pressi della sede del Comando, dalla quale in quel momentostava uscendo il comandante Attila (Antonio Mereu), che andava a raggiungere la sua compagnia. Fu freddato con un colpo di « Mauser » alla gola, e questo fu l’allarme. In pochi minuti il comando fu preso d’assalto dai nazisti, coadiuvati da reparti della brigata nera. Erano in circa 500 uomini, particolarmente addestrati per i rastrellamenti contro i partigiani. Molti del comando morirono combattendo a Cà di Gostino. I sopravvissuti, fra cui Bob, raggiunsero la compagnia di Tito, a Piano di Sopra, in quel momento impegnata in una battaglia durissima. Noi di Ettore ricevemmo l’ordine di proteggere la ritirata della compagnia di Tito, che aveva subitonotevoli perdite. Successivamente ci portammo sul crinale ad est, che si affaccia sulla strada Faentina, in quanto ci fu segnalato che altri reparti nemici giungevano da quella parte. Arrivammo sul crinale prima di loro, attaccandoli di sorpresa e respingendoli.
Poco dopo giunse una staffetta del comando con l’ordine di ritirarci immediatamente, in quanto i nazifascisti tentavano di aggirarci alle spalle. Si trattava di scendere da monte Colombo fino al torrente, percorrendo un pendio scoperto, e di raggiungere Poggio Termine, nell’altro versante, dove erano appostate le compagniedi Amato e di Dino che, con una mitragliatrice di aereo, proteggevano la nostra ritirata. Io fui tra gli ultimi ad arrivare a Poggio Termine, perché, col mio piede fratturato, non riuscivo a camminare. Verso sera i nazifascisti cessarono il fuoco e si ritirarono lasciando sul terreno qualche centinaio di morti.
Anche da parte nostra vi furono molte e gravi perdite. A Cà di Gostino erano morti Roberto Gherardi, il colonnello Saba, il comandante di battaglione Ivo Mazzanti, e tanti altri, fra i quali anche cari compagni di San Lazzaro di Savena: Dino Andreoli e Renato Torreggiani, miei amici fin dall’infanzia.
Il giorno successivo i nemici si fecero nuovamente vivi, sparando però da grande distanza, con mortai, sulle nostre postazioni. Non si azzardarono ad attaccarci a distanza ravvicinata per la lezione ricevuta il giorno precedente. La linea del fronte era a brevissima distanza e gli alleati quel giorno ci furono nemici. Sorvolarono le nostre postazioni con una « Cicogna » la quale, vedendo tutto quel movimento di uomini col fazzoletto rosso al collo, comunicò la nostra posizione all’artiglieria che ci rovesciò addosso molte granate che scoppiavano in aria e che lasciavano poi cadere una fitta pioggia di schegge incandescenti. Quando venne sera il comando di battaglione convocò tutti i comandanti di compagnia per un esame della situazione che si era venuta a creare, e per decidere sul da farsi. In quella riunione fu deciso soprattutto di abbandonare la zona, e di tentare di attraversare il fronte per congiungersi con gli alleati. Nella notte stessa ci mettemmo in cammino. Una decina di feriti gravi furono trasportati alla Chiesa di Cavina, il cui parroco era un nostro amico collaboratore, e vi rimasero con alcuni medici ed infermieri. I feriti che potevano reggersi a cavallo seguirono il battaglione. Io fui tra questi.
Con l’aiuto determinante della staffetta Pali (Sesto Liverani) attraversammo la strada Faentina, e, dopo aver passato a guado il Lamone, raggiungemmo la zona di Modigliana. Qui ci fermammo due giorni, cercando di non farci individuare dai nemici. Eravamo stremati materialmente e moralmente. Una dolorosa notizia ci giunse: i feriti, i medici e gli infermieri lasciati alla Chiesa di Cavina, erano stati scoperti e massacrati. Furono gli ultimi dei 270 compagni della mia brigata caduti nella lotta.
Nella notte dal 18 al 19 ottobre 1944, con l’aiuto di Pali attraversammo il fronte e ci congiungemmo con gli alleati, i quali, dopo averci disarmati, ci portarono a San Benedetto in Alpe. Di qui ci fecero proseguire, a bordo di automezzi, fino a Firenze, avviandoci ad un Centro di raccolta, in una caserma di via della Scala.
Io fui immediatamente ricoverato all’Ospedale Militare « San Gallo » e sottoposto ad esami radiografici al piede. Mi furono accertati esiti di frattura calcificata, però in posizione non regolare, e fu necessario un immediato intervento chirurgico. Rimasi ricoverato all’Ospedale di Firenze fino alla metà di gennaio 1945, e successivamente,
per lasciare il posto ai numerosi feriti che giungevano giornalmente dal fronte, assieme ad altri feriti fui inviato a Perugia. Di qui, dopo circa un mese, fui trasferito a Roma e ricoverato all’Ospedale Militare « Celio ».
Il 22 maggio 1945 dal Celio di Roma fui trasferito al « Centro Putti » di Bologna, ove rimasi ricoverato fino al 17 maggio 1946. Durante questo periodo di ricovero al « Putti » fui nuovamente operato dal colonnello medico prof. Oscar Scaglietti, e con questo intervento chirurgico il mio piede subì un notevole miglioramento.
Questa, succintamente, è la storia della mia partecipazione alla Resistenza.
Essendo stato uno dei protagonisti ne ho tratto una immensa esperienza politica, sociale, morale ed umana.

Testimonianza tratta da Luciano Bergonzini, La Resistenza a Bologna. Testimonianze e documenti, Volume V, pp. 158-166

Ciro “Tarzan” Dalmonte

Nato a Cotignola il 10 dicembre 1926. Licenza elementare. Operaio.
Militò nell’8ª Brigata Garibaldi attiva nell’Appennino forlivese.
Rimasto ferito il 12 aprile 1944 nel combattimento di Monte Falterona, si ristabilì ed entrò nella 36ª Brigata Bianconcini Garibaldi assumendo la carica di Comandante di squadra.
Capo squadra nella 36ª Brigata Garibaldi (1943-1945). Vigile urbano. (1968). Risiede a Lugo.

[Testimonianza rilasciata nel 1968. Residente a Lugo, Vigile Urbano]. Ero reduce dell’8ª brigata Garibaldi, operante nell’Appennino tosco-romagnolo nella zona Biserno-Santa Sofia-Forlì, quando, il 12 aprile 1944, essendo rimasto ferito in combattimento nella battaglia che la brigata sostenne al Falterona contro la divisione corazzata « Goering », inviata in rastrellamento, fui costretto ad abbandonare i miei compagni di lotta e fui trasportato in pianura per essere sottoposto alle più rapide cure per rimarginare le ferite nel minor tempo possibile.
Appena guarito mi riunii ad altri compagni della Romagna e, i primi dell’agosto 1944, raggiunsi con loro la 36ª brigata che in quel periodo si trovava nella zona fra la Bastia e il Carzolano, nel cuore della linea « Gotica ». Proprio mentre noi entravamo nella zona della brigata, i partigiani della 36ª stavano concludendo vittoriosamente una battaglia che li impegnava da giorni nella zona della Bastia: il nemico, che da tempo cercava di sfondare, era stato già respinto in più punti e la vittoria completa non tardò a venire.
Noi eravamo circa un trentina, tutti giovani della zona di Lugo, Faenza, Solarolo, Argenta, Massalombarda e Castel Bolognese. Dopo due giorni di marcia arrivammo al comando e, durante il tragitto, facemmo prigionieri due tedeschi nella zona di monte Faggiola, ma uno di questi, approfittando dell’oscurità e della inosservanza da parte nostra, tentò la fuga, scivolando in un burrone e nascondendosi fra i cespugli. Noi dicemmo all’altro prigioniero che se non chiamava il suo camerata lo avremmo fucilato e questi, a sua volta, in lingua tedesca, implorava il suo camerata di ritornare: il fuggitivo allora uscì dal nascondiglio.
Da quel momento fu disposta la massima sorveglianza: noi volevamo infatti consegnarli al comando della brigata per essere sottoposti ad interrogatorio.
Quando fummo al comando, Bob, che era il comandante della 36ª brigata, ordinò di inquadrare e rafforzare con qualche unità nuova le compagnie ancora impegnate nella lotta. Io fui incorporato nella 12ª compagnia, comandata allora da Lupo di Casola Valsenio, ed ebbi la fortuna di unirmi ad un mio grande amico, oltre che compagno di battaglia, Esiade, un ragazzo come me, di 18 anni, del mio stesso paese. Partimmo, raggiungemmo i compagni, stanchi anche loro, ma col volto sereno, combattemmo al loro fianco per qualche ora, poi i tedeschi, visto che non riuscivano nel loro intento, si ritirarono lasciando sul terreno dei morti e anche qualche ferito. Anche fra le nostre fila vi furono delle perdite e diversi feriti gravi.
Nei giorni seguenti, visto il fallimento dell’offensiva diretta e considerata l’importanza della zona che la brigata occupava, ormai a ridosso del fronte, in un punto del più alto interesse strategico, i tedeschi decisero di attaccare la brigata a distanza, sparando con cannoni e mortai contro le case e le postazioni partigiane.
Per qualche giorno si restò ancora sul posto, poi il comando decise, allo scopo di evitare perdite in una impossibile lotta a distanza, di spostare tutti gli effettivi più a valle, in direzione di Casola Valsenio. Tutti comprendemmo l’esigenza del fatto, però la decisione lasciò un segno nel morale di molti: non fu facile, infatti, abbandonare la zona dalla quale la brigata aveva sferrato tanti attacchi vittoriosi e più volte ricacciato i tedeschi e i fascisti.
Alla fine di settembre fu deciso un nuovo schieramento di lotta, e la brigata fu divisa in battaglioni. Bob illustrò ai giovani il piano di attacco che si stava preparando in direzione di Bologna, Imola e Faenza e fece capire chiaramente i pericoli cui si andava incontro e disse anche che, se qualcuno non se la sentiva, poteva andarsene.
Alcuni nostri compagni che fino a quel momento avevano combattuto con noi, abbandonarono la brigata, ma furono poche unità. Quasi tutti rimanemmo a fianco dei nostri comandanti i quali, fino a quel momento e a quel giorno, avevano saputo reggere nel migliore dei modi le sorti della brigata.
Dopo questa pausa, il comando della mia compagnia venne assunto da un ragazzo di Castel Bolognese, per la rinuncia da parte di Lupo, e il nuovo comandante, che si chiamava Kaki (Dato Cavallazzi), aveva in breve tempo saputo accattivarsi la simpatia di noi tutti e la decisione ci sembrò giusta. Io ero comandante di una squadra col nome di battaglia Tarzan, nome che avevo nella vecchia brigata e questo nome mi portò fortuna. Nella stessa giornara il comando decise di trasferirsi nei pressi della «Canovazza del Diavolo», nella parrocchia Fornazzano-Brisighella. Ci fu qualche giorno di tranquillità; eravamo attestati in una zona da cui si dominava tutta la valle sottostante che domina la strada Casolana. Questa tranquillità però non durò molto.
Il giorno 12 settembre, nel pomeriggio, la vedetta di servizio in cima al monte avvistò una pattuglia di tedeschi che si avvicinava alle nostre linee; diede l’allarme e noi, pronti, ci portammo in cima al monte per affrontare i tedeschi e respingerli.
Difatti, dopo breve sparatoria, il nemico si ritirò nella linea di partenza, rinunciando, almeno per il momento, al suo intento. Ma tutto questo non piacque né a noi né ai nostri dirigenti che diedero ordine di aumentare il servizio di guardia, poiché era presumibile che i tedeschi ritornassero di nuovo con forze ingenti.
L’ordine era di tenere gli occhi ben aperti, specialmente verso l’alba.
Così fu. La mattina del 13 settembre, le nostre vedette diedero di nuovo l’allarme; in breve tempo arrivammo in cima al monte, e ci appostammo in attesa di scatenare l’attacco. Nel posto c’erano tre compagnie concentrate. A un certo momento iniziò la battaglia. I tedeschi e i fascisti erano circa trecento e bene armati, con mitragliatrici, mortai, cannoncini da montagna, armamento molto superiore al nostro, tanto che loro facevano un fuoco incrociato da distanza. Ma, nonostante la loro superiorità di fuoco, per loro non fu facile. Cominciammo a rispondere al fuoco con armi leggere, fucili, mitragliatrici e bombe a mano, e durante la battaglia il mio amico Esiade e il suo portamunizioni caddero mentre eranoattaccati alla mitragliatrice.
Eravamo in combattimento da circa quattro ore, quando il comandante della brigata, Bob, che era sempre stato in prima linea, si alzò in piedi e lanciò l’ordine di contrattaccare. Fu come una nube di polvere; noi tutti ci alzammo e contrattaccammo i tedeschi che, sorpresi, iniziarono una ritirata disordinata. Fu in quel momento che il nostro coraggioso Esiade, mentre stava facendo cantare quella che chiamava la «fidanzata mitraglia» ed incitava i compagni a battersi con coraggio, fu colpito da un colpo di mortaio che si abbatte nella sua provvisoria postazione, colpendolo a morte. Il giovane partigiano Costa, di Solarolo, essendo a pochi metri da lui e rendendosi conto delle gravissime condizioni del compagno, che dava ancora qualche segno di vita, gli corse incontro e se lo mise sulle spalle per portarlo nell’infermeria, che distava circa due chilometri; ma purtroppo arrivò una seconda granata. Il povero Esiade moriva col suo soave sorriso sulle labbra. In quel giorno, in quell’ora, si spegneva uno dei nostri migliori giovani. Il Costa, nel tentativo di strappare alla morte il giovane compagno di battaglia, rimase ferito abbastanza gravemente ed io trovandomi a poca distanza, mi precipitai su di lui per condurlo in infcrmeria dove rimase diversi giorni per curarsi le ferite interne.
Nel frattempo, il resto dei miei compagni, con alla testa il comandante di brigata, continuava ad incalzare i tedeschi in ritirata disordinata fino alla strada Casolana e al fondo valle. I pendii erano cosparsi di cadaveri di tedeschi e vi eranoanche molti feriti. Fra le nostre fila avemmo tre caduti (Esiade e il portamunizioni Enea, un fabbro di Casola e Cesare il mitragliere), qualche ferito e fra questi il nostro comandante Kaki.
Da quel momento nella nostra compagnia vi fu di nuovo un cambiamento: il comando, a causa della ferita di Kaki, fu assunto da un giovane imolese, Rossi Rino, chiamato Ribelle. Restammo nella zona ancora qualche giorno e poi tutta la brigata venne giù a valle, verso Pideura, e qui un battaglione, comandato da Carlo-Nicoli, un tecnico della « Cogne », venne trasferito al monte Battaglia e noi ci trattenemmo ancora per qualche tempo. Poi di nuovo fummo attaccati dai nazifascisti, ma sempre le battaglie si svolsero a nostro favore. Dopo poco tempo ancora un nuovo ordine di trasferimento: il fronte era ormai a pochi chilometri.
Questa volta verso Casa Malanca e torrione Calamello, nel brisighellese. Vi erano poche case in questa zona e, in alto, sul torrione, fu insediata l’infermeria per curare i nostri feriti. Ci attestammo lì per affrontare il nemico che prima o poi avrebbeattaccato le nostre forze. Gli alleati in quel periodo erano tanto vicini che a volte si udiva la fucileria delle parti opposte e noi ci facevamo coraggio perché c’era speranza che presto tutto finisse.
A cominciare dal 9 ottobre fummo attaccati da reparti tedeschi che provenivano da tutte le parti e per noi non c’era via di scampo. Eravamo lì, rinchiusi in una morsa di ferro, ed i tedeschi battevano la zona con armi leggere e mortai. Sembrava un inferno, era una tempesta, un uragano di piombo che si abbatteva su di noi e in quel momento cominciammo a pensare di non uscirne vivi. Fra l’altro non si mangiava più da giorni. Insomma, avevamo la sensazione di essere in una tomba. Avemmo molti feriti, anche gravi, e qualche caduto. E si combatteva sempre.
Si fece sera e i tedeschi, come nella precedente giornata, si ritirarono e si limitarono a sparare coi mortai. Non ci davano tregua, non si poteva riposare, era; solo un incubo, una tortura che non voleva cessare. I feriti venivano curati alla buona e i medici facevano tutto il possibile, sprovvisti com’erano dei mezzi necessari.
La mattina seguente, all’alba, ricominciò di nuovo. Le forze tedesche tornarono all’attacco, come nelle giornate precedenti: si sparava, si sparava tanto che a volte non si capiva da che parte arrivassero i colpi. Il comando decise di inviare una pattuglia a qualche centinaio di metri dal torrione Calamello, ma era passato poco tempo dalla partenza quando una tempesta di granate cadde sulla pattuglia.
Questa volta però, era artiglieria alleata. I compagni dislocati nella zona si chiedevano come mai potesse accadere questo. Forse gli alleati, avendo notato il movimento e non distinguendo i tedeschi da noi, sparavano senza idee precise. Il comando inviò staffette oltre la linea per stabilire un contatto e poco dopo gli alleati cessarono il fuoco, ma non così i tedeschi che sparavano sempre senza una pausa.
Nel pomeriggio, il comandante Ribelle, il vice comandante ed io, ci spostammo di qualche centinaio di metri dalle nostre linee, per osservare meglio le postazioni tedesche, ma nel frattempo loro ci avevano notati e cominciarono a lanciare granate da mortaio su di noi. In un primo momento pensavamo di non uscire vivi da quella zona, ma ancora la fortuna fu dalla nostra parte e potemmo rientrare nella zona di partenza fra i nostri compagni.
Il giorno successivo i comandanti delle compagnie, coi rispettivi commissari ed il comandante di brigata, studiarono ancora una volta la situazione militare e vennero alla determinazione di attraversare la linea del fronte che distava pochi chilometri con l’intento di riprendere il combattimento una volta uniti agli alleati.
E così diverse compagnie, approfittando dello sbandamento del fronte tedesco, attraversarono le linee e si misero a disposizione degli alleati. Io, invece, insieme a qualche altro compagno, ritornai in pianura e mi misi a disposizione dei dirigenti locali del CLN.

Testimonianza tratta da Luciano Bergonzini, La Resistenza a Bologna. Testimonianze e documenti, Volume V, pp. 187-189

“Una lucciola nel sole della libertà”, lettura del sindaco di Cotignola Luca Piovaccari, estratta dal libro del partigiano cotignolese Ciro Dalmonte

Clicca qui per collegarti con il sito di youtube con la videolettura di un estratto del libro “una lucciola nel sole della libertà” di Ciro Dalmonte

Elisa Tozzi, nella famiglia che viveva a Ca’ Malanca

Elisa Tozzi in una foto scattatata il 3 maggio 1944

Nell’estate del 1944 vivevo con la mia famiglia a Ca’ di Malanca. Eravamo coltivatori diretti, ma la produzione era talmente scarsa che il nostro tenore di vita era leggermente superiore a quello dei nostri vicini mezzadri. Ca’ di Malanca era formata da due abitazioni distinte: in una abitava la mia famiglia di sei persone e nell’altra la famiglia di mio zio di sette persone. Vi erano anche due famiglie di sfollati e tutti dipendevamo dai magri raccolti dei nostri campi.
Dei partigiani avevamo poche ed imprecise notizie: si diceva che fossero dei banditi che bruciavano le case. Il primo che ce ne parlò chiaramente fu don Chesi, il parroco di Fornazzano, il quale alla vigilia di un rastrellamento nazifascista ci chiese se potevamo ospitare nel nostro fienile cinque partigiani che teneva nascosti nel campanile e se scoperti sarebbero stati uccisi e con loro anche chi li proteggeva.
Fu in quella occasione che ci spiegò che i ragazzi chiamati banditi o ribelli erano della brava gente e consigliò anche ai miei due fratelli di entrare nelle formazioni partigiane. I cinque giovani, che erano renitenti, si fermarono da noi per un sol giorno e quindi si aggregarono alla formazione di Silvio Corbari.
A ferragosto giunse un gruppo di partigiani di Casola e di Borgo Rivola (circa una decina) che si fermarono da noi per alcuni giorni dormendo nel fienile e usando il nostro forno per cuocere il pane, ma tenendo per il resto un atteggiamento molto riservato.

Donne delle case di Fontana Podisa, Ca’ Malanca,, Ca’ dei Topi nuovi, Vigo. La prima, seduta a gambe stese è Evelina Poggiali, perpetua di Don Chesi di Fornazzano.

In uno dei primi giorni di settembre vedemmo l’aia invasa da una intera compagnia partigiana: quasi cinquanta uomini, che sapemmo poi far parte della 36ª Brigata Garibaldi. Il comandante Gino e il commissario politico Winco chiesero a mio padre se potevano fermarsi per in periodo che poteva essere anche molto lungo.
Mio padre rispose: «restate quanto volete; però dovrete arrangiarvi, vedete come siamo numerosi e come sono misere le nostre condizioni». Gino lo rassicurò: «Non prendiamo niente, ci basta un posto per dormire e per cucinare».
Dopo i primi giorni di una comprensibile diffidenza, tra i partigiani ed i civili di Ca’ di Malanca si creò un tale rapporto di fratellanza, tanto che sembravamo essere una unica famiglia: i partigiani dormivano nel fienile, nella stalla o sul pavimento della cucina avendo lasciato ad ognuno di noi la sua camera, ma durante il giorno si cucinava e si mangiava insieme e per noi fu un grosso vantaggio in quanto dopo tanto tempo disponemmo di una certa abbondanza di carne e di vino e di altri generi che mancavano anche nei negozi di S. Cassiano.
Un giorno un giovane partigiano s’impadronì di un lenzuolo che avevamo abbandonato nell’aia per farsi degli indumenti. Quando il comandante Gino lo seppe, condannò il povero giovane ad un giorno di palo. Mia madre, mossa a compassione dalla posizione dolorosa in era costretto il giovane e soprattutto dalla sua età, pregò Gino di liberarlo dato che il lenzuolo era vecchio e rotto e a noi non serviva più: fu la supplica che avrebbe fatto la madre del ragazzo se fosse stata presente. Gino fu inflessibile e il partigiano rimase al palo per un giorno intero in quanto – ci fu spiegato – i partigiani avevano ordine tassativo di non impadronirsi dei beni dei contadini senza il loro consenso o senza pagarli.
Un’altra volta due partigiani tornarono con dei polli che non avevano pagato: Gino si informò da mia madre sulle condizioni economiche della famiglia a cui erano stati sottratti e saputo che si trattava di una famiglia numerosa e con poche risorse li rispedì urlando a pagare i polli e a riportargli la ricevuta.
La nostra casa si trovava entro l’area controllata dalla 36ª così che la vita trascorreva relativamente tranquilla: i partigiani durante il giorno si esercitavano, pulivano le armi o riposavano se erano stati incaricati di azioni nel corso della notte. C’erano anche momenti quasi di spensieratezza ed in fondo era naturale, anche se c’era la guerra, dato che la maggior parte dei partigiani aveva poco più di venti anni: la sera, un polacco suonava l’armonica a bocca e due russi ballavano una danza tipica del loro paese mentre tutti noi facevamo circolo intorno e cantavamo, anche canzoni mai sentite prima come «Bandiera rossa».
Don Chesi era molto stimato dai partigiani che lo consideravano un loro amico, un parroco moderno – dicevano – tanto che Gino e Winco si recavano spesso a Fornazzano, al contrario del parroco di S. Andrea profondamente detestato dai partigiani che gli giocarono un brutto scherzo: rubategli le vesti dei confratelli e alcune tonache, una domenica mattina organizzarono una processione attorno a Ca’ di Malanca sotto gli sguardi scandalizzati delle religiosissime donne della casa che, facendosi ripetuti segni di croce, pronosticavano la dannazione eterna per gli irriverenti giovani.
Tutte le sere il commissario politico impartiva «l’ora di politica» a cui partecipavano tutti gli uomini liberi, compresi i miei fratelli. Mio padre invece si teneva in disparte in quanto – come tanti contadini anziani – era contrario alla politica e alle tessere tanto che fu imprigionato per alcuni giorni per essersi rifiutato di farmi prendere la tessera di «Giovane Italiana».
Noi donne assistevamo alle riunioni qualche volta, forse più per curiosità che per interesse. Discutevamo sui rapporti tra contadini e padroni e su come si sarebbe organizzata la vita dopo la sconfitta dei fascisti. Quando parlavano della loro situazione c’era anche chi ammetteva di aver paura: ricordo che un partigiano giovanissimo di Castelbolognese ripeteva continuamente che voleva tornare a casa da suo padre e da sua madre, che non voleva morire lassù, ma gli altri lo convinsero a restare perché a Castelbolognese sarebbe stato sicuramente catturato e fucilato.
Terminata l’ora di politica, il commissario o il comandante radunavano le squadre GAP ed impartivano gli ordini per le azioni cattura di spie, prelevamento di armi, approvvigionamento di viveri. Le squadre, composte di cinque o sei elementi, partivano immediatamente ed erano di ritorno prima dell’alba. Quando portavano dei prigionieri questi venivano rinchiusi sotto sorveglianza in uno stalletto per tutto il giorno e la sera trasferiti a Molino Boldrino dove aveva sede il comando.
I partigiani ci aiutarono anche nel lavoro: per la trebbiatura si alternarono a gruppi di quattro per azionare una vecchia trebbiatrice a mano e il grano ci fu lasciato tutto. Noi donne per sdebitarci cucinavamo i loro vestiti, i fazzoletti rossi con la falce e il martello, usando ciò che si poteva reperire nella zona: i lenzuoli servirono per confezionare dei pantaloni corti; con delle tinta colorammo di rosso le camicie, i fazzoletti e la fiamma della compagnia.
Il comando teneva i contatti con la compagnia di Gino tramite una ragazza che qualche volta si fermava da noi per aiutarci a cucire e a rammendare per i partigiani. In quelle occasioni parlavamo spesso di quale era la vita delle donne partigiane e dei motivi che le avevano spinte a quella scelta dato che circolavano voci secondo le quali le ragazze erano state reclutate nelle case di tolleranza della città o avevano dovuto abbandonare i loro paesi perché moralmente screditate.
Quando le parlai di questo la ragazza sorrise e mi disse che lei e le sue compagne erano lì per aver voluto seguire i fratelli e il moroso ma anche come scelta politica perché sentivano che, anche se donne, era loro dovere combattere i nazifascismi anche con le armi.
Verso la fine di settembre, nella chiesa di Fornazzano ci fu il matrimonio di un partigiano di Casola inquadrato nella 36ª alla cerimonia erano presenti tutti i civili e tutta la compagnia (a parte le guardie lasciate fuori della chiesa). Un partigiano suonava l’organo e un altro cantava mentre il parroco celebrava e fu una vera cerimonia nuziale anche se l’abbigliamento dei presenti non era dei più appropriati. Il pomeriggio festeggiammo gli sposi e ci fu anche chi fece loro dei regali, poi ballammo, ma la serata fu rovinata da movimenti di truppe tedesche nelle vicinanze.
Ca’ di Malanca divenne infatti zona di guerra e noi civili fummo costretti a sfollare tranne i miei fratelli e mio padre che si aggregarono alla compagnia partigiana e la seguirono nelle dure battaglie che la 36ª dovette affrontare in quell’autunno del 1944.

Testimonianza tratta da Amilcare Mattioli, Giuseppe Sangiorgi, La Resistenza sui monti di Casola, 1994, pp. 164-166.