Ciro “Tarzan” Dalmonte

Nato a Cotignola il 10 dicembre 1926. Licenza elementare. Operaio.
Militò nell’8ª Brigata Garibaldi attiva nell’Appennino forlivese.
Rimasto ferito il 12 aprile 1944 nel combattimento di Monte Falterona, si ristabilì ed entrò nella 36ª Brigata Bianconcini Garibaldi assumendo la carica di Comandante di squadra.
Capo squadra nella 36ª Brigata Garibaldi (1943-1945). Vigile urbano. (1968). Risiede a Lugo.

[Testimonianza rilasciata nel 1968. Residente a Lugo, Vigile Urbano]. Ero reduce dell’8ª brigata Garibaldi, operante nell’Appennino tosco-romagnolo nella zona Biserno-Santa Sofia-Forlì, quando, il 12 aprile 1944, essendo rimasto ferito in combattimento nella battaglia che la brigata sostenne al Falterona contro la divisione corazzata « Goering », inviata in rastrellamento, fui costretto ad abbandonare i miei compagni di lotta e fui trasportato in pianura per essere sottoposto alle più rapide cure per rimarginare le ferite nel minor tempo possibile.
Appena guarito mi riunii ad altri compagni della Romagna e, i primi dell’agosto 1944, raggiunsi con loro la 36ª brigata che in quel periodo si trovava nella zona fra la Bastia e il Carzolano, nel cuore della linea « Gotica ». Proprio mentre noi entravamo nella zona della brigata, i partigiani della 36ª stavano concludendo vittoriosamente una battaglia che li impegnava da giorni nella zona della Bastia: il nemico, che da tempo cercava di sfondare, era stato già respinto in più punti e la vittoria completa non tardò a venire.
Noi eravamo circa un trentina, tutti giovani della zona di Lugo, Faenza, Solarolo, Argenta, Massalombarda e Castel Bolognese. Dopo due giorni di marcia arrivammo al comando e, durante il tragitto, facemmo prigionieri due tedeschi nella zona di monte Faggiola, ma uno di questi, approfittando dell’oscurità e della inosservanza da parte nostra, tentò la fuga, scivolando in un burrone e nascondendosi fra i cespugli. Noi dicemmo all’altro prigioniero che se non chiamava il suo camerata lo avremmo fucilato e questi, a sua volta, in lingua tedesca, implorava il suo camerata di ritornare: il fuggitivo allora uscì dal nascondiglio.
Da quel momento fu disposta la massima sorveglianza: noi volevamo infatti consegnarli al comando della brigata per essere sottoposti ad interrogatorio.
Quando fummo al comando, Bob, che era il comandante della 36ª brigata, ordinò di inquadrare e rafforzare con qualche unità nuova le compagnie ancora impegnate nella lotta. Io fui incorporato nella 12ª compagnia, comandata allora da Lupo di Casola Valsenio, ed ebbi la fortuna di unirmi ad un mio grande amico, oltre che compagno di battaglia, Esiade, un ragazzo come me, di 18 anni, del mio stesso paese. Partimmo, raggiungemmo i compagni, stanchi anche loro, ma col volto sereno, combattemmo al loro fianco per qualche ora, poi i tedeschi, visto che non riuscivano nel loro intento, si ritirarono lasciando sul terreno dei morti e anche qualche ferito. Anche fra le nostre fila vi furono delle perdite e diversi feriti gravi.
Nei giorni seguenti, visto il fallimento dell’offensiva diretta e considerata l’importanza della zona che la brigata occupava, ormai a ridosso del fronte, in un punto del più alto interesse strategico, i tedeschi decisero di attaccare la brigata a distanza, sparando con cannoni e mortai contro le case e le postazioni partigiane.
Per qualche giorno si restò ancora sul posto, poi il comando decise, allo scopo di evitare perdite in una impossibile lotta a distanza, di spostare tutti gli effettivi più a valle, in direzione di Casola Valsenio. Tutti comprendemmo l’esigenza del fatto, però la decisione lasciò un segno nel morale di molti: non fu facile, infatti, abbandonare la zona dalla quale la brigata aveva sferrato tanti attacchi vittoriosi e più volte ricacciato i tedeschi e i fascisti.
Alla fine di settembre fu deciso un nuovo schieramento di lotta, e la brigata fu divisa in battaglioni. Bob illustrò ai giovani il piano di attacco che si stava preparando in direzione di Bologna, Imola e Faenza e fece capire chiaramente i pericoli cui si andava incontro e disse anche che, se qualcuno non se la sentiva, poteva andarsene.
Alcuni nostri compagni che fino a quel momento avevano combattuto con noi, abbandonarono la brigata, ma furono poche unità. Quasi tutti rimanemmo a fianco dei nostri comandanti i quali, fino a quel momento e a quel giorno, avevano saputo reggere nel migliore dei modi le sorti della brigata.
Dopo questa pausa, il comando della mia compagnia venne assunto da un ragazzo di Castel Bolognese, per la rinuncia da parte di Lupo, e il nuovo comandante, che si chiamava Kaki (Dato Cavallazzi), aveva in breve tempo saputo accattivarsi la simpatia di noi tutti e la decisione ci sembrò giusta. Io ero comandante di una squadra col nome di battaglia Tarzan, nome che avevo nella vecchia brigata e questo nome mi portò fortuna. Nella stessa giornara il comando decise di trasferirsi nei pressi della «Canovazza del Diavolo», nella parrocchia Fornazzano-Brisighella. Ci fu qualche giorno di tranquillità; eravamo attestati in una zona da cui si dominava tutta la valle sottostante che domina la strada Casolana. Questa tranquillità però non durò molto.
Il giorno 12 settembre, nel pomeriggio, la vedetta di servizio in cima al monte avvistò una pattuglia di tedeschi che si avvicinava alle nostre linee; diede l’allarme e noi, pronti, ci portammo in cima al monte per affrontare i tedeschi e respingerli.
Difatti, dopo breve sparatoria, il nemico si ritirò nella linea di partenza, rinunciando, almeno per il momento, al suo intento. Ma tutto questo non piacque né a noi né ai nostri dirigenti che diedero ordine di aumentare il servizio di guardia, poiché era presumibile che i tedeschi ritornassero di nuovo con forze ingenti.
L’ordine era di tenere gli occhi ben aperti, specialmente verso l’alba.
Così fu. La mattina del 13 settembre, le nostre vedette diedero di nuovo l’allarme; in breve tempo arrivammo in cima al monte, e ci appostammo in attesa di scatenare l’attacco. Nel posto c’erano tre compagnie concentrate. A un certo momento iniziò la battaglia. I tedeschi e i fascisti erano circa trecento e bene armati, con mitragliatrici, mortai, cannoncini da montagna, armamento molto superiore al nostro, tanto che loro facevano un fuoco incrociato da distanza. Ma, nonostante la loro superiorità di fuoco, per loro non fu facile. Cominciammo a rispondere al fuoco con armi leggere, fucili, mitragliatrici e bombe a mano, e durante la battaglia il mio amico Esiade e il suo portamunizioni caddero mentre eranoattaccati alla mitragliatrice.
Eravamo in combattimento da circa quattro ore, quando il comandante della brigata, Bob, che era sempre stato in prima linea, si alzò in piedi e lanciò l’ordine di contrattaccare. Fu come una nube di polvere; noi tutti ci alzammo e contrattaccammo i tedeschi che, sorpresi, iniziarono una ritirata disordinata. Fu in quel momento che il nostro coraggioso Esiade, mentre stava facendo cantare quella che chiamava la «fidanzata mitraglia» ed incitava i compagni a battersi con coraggio, fu colpito da un colpo di mortaio che si abbatte nella sua provvisoria postazione, colpendolo a morte. Il giovane partigiano Costa, di Solarolo, essendo a pochi metri da lui e rendendosi conto delle gravissime condizioni del compagno, che dava ancora qualche segno di vita, gli corse incontro e se lo mise sulle spalle per portarlo nell’infermeria, che distava circa due chilometri; ma purtroppo arrivò una seconda granata. Il povero Esiade moriva col suo soave sorriso sulle labbra. In quel giorno, in quell’ora, si spegneva uno dei nostri migliori giovani. Il Costa, nel tentativo di strappare alla morte il giovane compagno di battaglia, rimase ferito abbastanza gravemente ed io trovandomi a poca distanza, mi precipitai su di lui per condurlo in infcrmeria dove rimase diversi giorni per curarsi le ferite interne.
Nel frattempo, il resto dei miei compagni, con alla testa il comandante di brigata, continuava ad incalzare i tedeschi in ritirata disordinata fino alla strada Casolana e al fondo valle. I pendii erano cosparsi di cadaveri di tedeschi e vi eranoanche molti feriti. Fra le nostre fila avemmo tre caduti (Esiade e il portamunizioni Enea, un fabbro di Casola e Cesare il mitragliere), qualche ferito e fra questi il nostro comandante Kaki.
Da quel momento nella nostra compagnia vi fu di nuovo un cambiamento: il comando, a causa della ferita di Kaki, fu assunto da un giovane imolese, Rossi Rino, chiamato Ribelle. Restammo nella zona ancora qualche giorno e poi tutta la brigata venne giù a valle, verso Pideura, e qui un battaglione, comandato da Carlo-Nicoli, un tecnico della « Cogne », venne trasferito al monte Battaglia e noi ci trattenemmo ancora per qualche tempo. Poi di nuovo fummo attaccati dai nazifascisti, ma sempre le battaglie si svolsero a nostro favore. Dopo poco tempo ancora un nuovo ordine di trasferimento: il fronte era ormai a pochi chilometri.
Questa volta verso Casa Malanca e torrione Calamello, nel brisighellese. Vi erano poche case in questa zona e, in alto, sul torrione, fu insediata l’infermeria per curare i nostri feriti. Ci attestammo lì per affrontare il nemico che prima o poi avrebbeattaccato le nostre forze. Gli alleati in quel periodo erano tanto vicini che a volte si udiva la fucileria delle parti opposte e noi ci facevamo coraggio perché c’era speranza che presto tutto finisse.
A cominciare dal 9 ottobre fummo attaccati da reparti tedeschi che provenivano da tutte le parti e per noi non c’era via di scampo. Eravamo lì, rinchiusi in una morsa di ferro, ed i tedeschi battevano la zona con armi leggere e mortai. Sembrava un inferno, era una tempesta, un uragano di piombo che si abbatteva su di noi e in quel momento cominciammo a pensare di non uscirne vivi. Fra l’altro non si mangiava più da giorni. Insomma, avevamo la sensazione di essere in una tomba. Avemmo molti feriti, anche gravi, e qualche caduto. E si combatteva sempre.
Si fece sera e i tedeschi, come nella precedente giornata, si ritirarono e si limitarono a sparare coi mortai. Non ci davano tregua, non si poteva riposare, era; solo un incubo, una tortura che non voleva cessare. I feriti venivano curati alla buona e i medici facevano tutto il possibile, sprovvisti com’erano dei mezzi necessari.
La mattina seguente, all’alba, ricominciò di nuovo. Le forze tedesche tornarono all’attacco, come nelle giornate precedenti: si sparava, si sparava tanto che a volte non si capiva da che parte arrivassero i colpi. Il comando decise di inviare una pattuglia a qualche centinaio di metri dal torrione Calamello, ma era passato poco tempo dalla partenza quando una tempesta di granate cadde sulla pattuglia.
Questa volta però, era artiglieria alleata. I compagni dislocati nella zona si chiedevano come mai potesse accadere questo. Forse gli alleati, avendo notato il movimento e non distinguendo i tedeschi da noi, sparavano senza idee precise. Il comando inviò staffette oltre la linea per stabilire un contatto e poco dopo gli alleati cessarono il fuoco, ma non così i tedeschi che sparavano sempre senza una pausa.
Nel pomeriggio, il comandante Ribelle, il vice comandante ed io, ci spostammo di qualche centinaio di metri dalle nostre linee, per osservare meglio le postazioni tedesche, ma nel frattempo loro ci avevano notati e cominciarono a lanciare granate da mortaio su di noi. In un primo momento pensavamo di non uscire vivi da quella zona, ma ancora la fortuna fu dalla nostra parte e potemmo rientrare nella zona di partenza fra i nostri compagni.
Il giorno successivo i comandanti delle compagnie, coi rispettivi commissari ed il comandante di brigata, studiarono ancora una volta la situazione militare e vennero alla determinazione di attraversare la linea del fronte che distava pochi chilometri con l’intento di riprendere il combattimento una volta uniti agli alleati.
E così diverse compagnie, approfittando dello sbandamento del fronte tedesco, attraversarono le linee e si misero a disposizione degli alleati. Io, invece, insieme a qualche altro compagno, ritornai in pianura e mi misi a disposizione dei dirigenti locali del CLN.

Testimonianza tratta da Luciano Bergonzini, La Resistenza a Bologna. Testimonianze e documenti, Volume V, pp. 187-189

“Una lucciola nel sole della libertà”, lettura del sindaco di Cotignola Luca Piovaccari, estratta dal libro del partigiano cotignolese Ciro Dalmonte

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Elisa Tozzi, nella famiglia che viveva a Ca’ Malanca

Elisa Tozzi in una foto scattatata il 3 maggio 1944

Nell’estate del 1944 vivevo con la mia famiglia a Ca’ di Malanca. Eravamo coltivatori diretti, ma la produzione era talmente scarsa che il nostro tenore di vita era leggermente superiore a quello dei nostri vicini mezzadri. Ca’ di Malanca era formata da due abitazioni distinte: in una abitava la mia famiglia di sei persone e nell’altra la famiglia di mio zio di sette persone. Vi erano anche due famiglie di sfollati e tutti dipendevamo dai magri raccolti dei nostri campi.
Dei partigiani avevamo poche ed imprecise notizie: si diceva che fossero dei banditi che bruciavano le case. Il primo che ce ne parlò chiaramente fu don Chesi, il parroco di Fornazzano, il quale alla vigilia di un rastrellamento nazifascista ci chiese se potevamo ospitare nel nostro fienile cinque partigiani che teneva nascosti nel campanile e se scoperti sarebbero stati uccisi e con loro anche chi li proteggeva.
Fu in quella occasione che ci spiegò che i ragazzi chiamati banditi o ribelli erano della brava gente e consigliò anche ai miei due fratelli di entrare nelle formazioni partigiane. I cinque giovani, che erano renitenti, si fermarono da noi per un sol giorno e quindi si aggregarono alla formazione di Silvio Corbari.
A ferragosto giunse un gruppo di partigiani di Casola e di Borgo Rivola (circa una decina) che si fermarono da noi per alcuni giorni dormendo nel fienile e usando il nostro forno per cuocere il pane, ma tenendo per il resto un atteggiamento molto riservato.

Donne delle case di Fontana Podisa, Ca’ Malanca,, Ca’ dei Topi nuovi, Vigo. La prima, seduta a gambe stese è Evelina Poggiali, perpetua di Don Chesi di Fornazzano.

In uno dei primi giorni di settembre vedemmo l’aia invasa da una intera compagnia partigiana: quasi cinquanta uomini, che sapemmo poi far parte della 36ª Brigata Garibaldi. Il comandante Gino e il commissario politico Winco chiesero a mio padre se potevano fermarsi per in periodo che poteva essere anche molto lungo.
Mio padre rispose: «restate quanto volete; però dovrete arrangiarvi, vedete come siamo numerosi e come sono misere le nostre condizioni». Gino lo rassicurò: «Non prendiamo niente, ci basta un posto per dormire e per cucinare».
Dopo i primi giorni di una comprensibile diffidenza, tra i partigiani ed i civili di Ca’ di Malanca si creò un tale rapporto di fratellanza, tanto che sembravamo essere una unica famiglia: i partigiani dormivano nel fienile, nella stalla o sul pavimento della cucina avendo lasciato ad ognuno di noi la sua camera, ma durante il giorno si cucinava e si mangiava insieme e per noi fu un grosso vantaggio in quanto dopo tanto tempo disponemmo di una certa abbondanza di carne e di vino e di altri generi che mancavano anche nei negozi di S. Cassiano.
Un giorno un giovane partigiano s’impadronì di un lenzuolo che avevamo abbandonato nell’aia per farsi degli indumenti. Quando il comandante Gino lo seppe, condannò il povero giovane ad un giorno di palo. Mia madre, mossa a compassione dalla posizione dolorosa in era costretto il giovane e soprattutto dalla sua età, pregò Gino di liberarlo dato che il lenzuolo era vecchio e rotto e a noi non serviva più: fu la supplica che avrebbe fatto la madre del ragazzo se fosse stata presente. Gino fu inflessibile e il partigiano rimase al palo per un giorno intero in quanto – ci fu spiegato – i partigiani avevano ordine tassativo di non impadronirsi dei beni dei contadini senza il loro consenso o senza pagarli.
Un’altra volta due partigiani tornarono con dei polli che non avevano pagato: Gino si informò da mia madre sulle condizioni economiche della famiglia a cui erano stati sottratti e saputo che si trattava di una famiglia numerosa e con poche risorse li rispedì urlando a pagare i polli e a riportargli la ricevuta.
La nostra casa si trovava entro l’area controllata dalla 36ª così che la vita trascorreva relativamente tranquilla: i partigiani durante il giorno si esercitavano, pulivano le armi o riposavano se erano stati incaricati di azioni nel corso della notte. C’erano anche momenti quasi di spensieratezza ed in fondo era naturale, anche se c’era la guerra, dato che la maggior parte dei partigiani aveva poco più di venti anni: la sera, un polacco suonava l’armonica a bocca e due russi ballavano una danza tipica del loro paese mentre tutti noi facevamo circolo intorno e cantavamo, anche canzoni mai sentite prima come «Bandiera rossa».
Don Chesi era molto stimato dai partigiani che lo consideravano un loro amico, un parroco moderno – dicevano – tanto che Gino e Winco si recavano spesso a Fornazzano, al contrario del parroco di S. Andrea profondamente detestato dai partigiani che gli giocarono un brutto scherzo: rubategli le vesti dei confratelli e alcune tonache, una domenica mattina organizzarono una processione attorno a Ca’ di Malanca sotto gli sguardi scandalizzati delle religiosissime donne della casa che, facendosi ripetuti segni di croce, pronosticavano la dannazione eterna per gli irriverenti giovani.
Tutte le sere il commissario politico impartiva «l’ora di politica» a cui partecipavano tutti gli uomini liberi, compresi i miei fratelli. Mio padre invece si teneva in disparte in quanto – come tanti contadini anziani – era contrario alla politica e alle tessere tanto che fu imprigionato per alcuni giorni per essersi rifiutato di farmi prendere la tessera di «Giovane Italiana».
Noi donne assistevamo alle riunioni qualche volta, forse più per curiosità che per interesse. Discutevamo sui rapporti tra contadini e padroni e su come si sarebbe organizzata la vita dopo la sconfitta dei fascisti. Quando parlavano della loro situazione c’era anche chi ammetteva di aver paura: ricordo che un partigiano giovanissimo di Castelbolognese ripeteva continuamente che voleva tornare a casa da suo padre e da sua madre, che non voleva morire lassù, ma gli altri lo convinsero a restare perché a Castelbolognese sarebbe stato sicuramente catturato e fucilato.
Terminata l’ora di politica, il commissario o il comandante radunavano le squadre GAP ed impartivano gli ordini per le azioni cattura di spie, prelevamento di armi, approvvigionamento di viveri. Le squadre, composte di cinque o sei elementi, partivano immediatamente ed erano di ritorno prima dell’alba. Quando portavano dei prigionieri questi venivano rinchiusi sotto sorveglianza in uno stalletto per tutto il giorno e la sera trasferiti a Molino Boldrino dove aveva sede il comando.
I partigiani ci aiutarono anche nel lavoro: per la trebbiatura si alternarono a gruppi di quattro per azionare una vecchia trebbiatrice a mano e il grano ci fu lasciato tutto. Noi donne per sdebitarci cucinavamo i loro vestiti, i fazzoletti rossi con la falce e il martello, usando ciò che si poteva reperire nella zona: i lenzuoli servirono per confezionare dei pantaloni corti; con delle tinta colorammo di rosso le camicie, i fazzoletti e la fiamma della compagnia.
Il comando teneva i contatti con la compagnia di Gino tramite una ragazza che qualche volta si fermava da noi per aiutarci a cucire e a rammendare per i partigiani. In quelle occasioni parlavamo spesso di quale era la vita delle donne partigiane e dei motivi che le avevano spinte a quella scelta dato che circolavano voci secondo le quali le ragazze erano state reclutate nelle case di tolleranza della città o avevano dovuto abbandonare i loro paesi perché moralmente screditate.
Quando le parlai di questo la ragazza sorrise e mi disse che lei e le sue compagne erano lì per aver voluto seguire i fratelli e il moroso ma anche come scelta politica perché sentivano che, anche se donne, era loro dovere combattere i nazifascismi anche con le armi.
Verso la fine di settembre, nella chiesa di Fornazzano ci fu il matrimonio di un partigiano di Casola inquadrato nella 36ª alla cerimonia erano presenti tutti i civili e tutta la compagnia (a parte le guardie lasciate fuori della chiesa). Un partigiano suonava l’organo e un altro cantava mentre il parroco celebrava e fu una vera cerimonia nuziale anche se l’abbigliamento dei presenti non era dei più appropriati. Il pomeriggio festeggiammo gli sposi e ci fu anche chi fece loro dei regali, poi ballammo, ma la serata fu rovinata da movimenti di truppe tedesche nelle vicinanze.
Ca’ di Malanca divenne infatti zona di guerra e noi civili fummo costretti a sfollare tranne i miei fratelli e mio padre che si aggregarono alla compagnia partigiana e la seguirono nelle dure battaglie che la 36ª dovette affrontare in quell’autunno del 1944.

Testimonianza tratta da Amilcare Mattioli, Giuseppe Sangiorgi, La Resistenza sui monti di Casola, 1994, pp. 164-166.

 

Amato Rossi

25 aprile 2004: Amato Rossi a Ca’ Malanca

Nato il 22 settembre 1916 ad Argenta, ivi residente nel 1943. Licenza elementare, commerciante.
Afro Rossi, «Amato», da Giacomo e Paola Ricci Maccarini; nato il 22 settembre 1916 ad Argenta (FE); ivi residente nel 1943. Licenza elementare. Commerciante.
Militò nella 36a brigata Bianconcini Garibaldi con funzione di comandante di compagnia.

Il 10 ottobre 1944 alla testa dei suoi uomini partì da Cà di Malanca e con un’altra compagnia tentò di sfondare l’accerchiamento tedesco per consentire alla brigata di attraversare la linea del fronte e ricongiungersi con gli alleati.
La battaglia ebbe esito sfortunato per la resistenza dei tedeschi e perché gli alleati bombardarono, per errore, le postazioni partigiane.
Dopo la Liberazione è stato nominato presidente dell’ANPI provinciale di Ferrara e, sino alla morte nel 2005, ha fatto parte del Comitato provinciale dell’Associazione.

La testimonianza di Amato Rossi registrata nel 1999 per il
video “memoria dalla Resistenza”
(clicca qui sotto e il file si aprirà direttamente sulla
prima testimonianza di Amato Rossi, segue una
seconda testimonianza al minuto 17:30 del video)

Riportiamo la sua testimonianza pubblicata in Luciano Bergonzini, La Resistenza a Bologna. Testimonianze e documenti, Volume V, pp. 222-224 e l’articolo pubblicato da Algide Vandini su “La Nuova Ferrara” il 24 gennaio 2006.

[Testimonianza scritta nel 1969] «La sera del 9 ottobre 1944 lo stato maggiore della 36a brigata si riunì per predisporre l’occupazione di Cà di Malanca e successivamente di tutta la zona di monte Romano. A questo compito furono scelte la mia compagnia e quella comandata da Pirì.
Riuniti gli uomini, spiegai loro quali erano gli obiettivi da raggiungere e i pericoli cui si andava incontro. Fu con grande soddisfazione che quei ragazzi riuniti in cerchio attorno a me, risposero in coro: « Finalmente si va a combattere! ».
In breve tempo ci preparammo. Date le ultime disposizioni, ci mettemmo in marcia, preceduti dalla compagnia di Pirì. Il trasferimento fu abbastanza lungo, durò quattro ore circa, poi sentimmo degli spari a distanza ravvicinata che ci misero in allarme.

La compagnia di Amato a Ca’ Malanca

Attendemmo l’alba sul chi vive, ma alle prime luci del giorno capimmo che i tedeschi si erano spostati sulle alture più a sud per evitare, evidentemente, uno scontro frontale coi partigiani. Occupammo così Ca’ di Malanca e l’immediata area circostante con una certa precauzione in quanto i tedeschi erano soliti lasciare delle mine in ogni luogo da loro precedentemente occupato. Ma tutto andò bene e, dopo avere organizzato un sufficiente servizio di vigilanza, gli uomini poterono riposare tranquillamente.
Il comandante Bob non tardò a giungere tra noi. Era solito, quando una compagnia si apprestava ad attaccare o ad essere attaccata, essere presente per incitare, anche con la sua sola presenza, gli uomini e per dirigere eventualmente il combattimento.
Mi chiese: «Com’è andata?»; poi: «com’è il luogo?». Risposi che non avevo ancora un’idea del posto e che aspettavo il giorno fatto per compiere una ricognizione. Più tardi mi avviai per una preliminare esplorazione della zona.
Ero già abbastanza lontano dalle nostre posizioni quando mi accorsi di essere seguito; mi voltai e per poco non scaricavo l’arma su un tedesco che mi stava alle spalle: era un prigioniero che tenevo nella compagnia perché mi ero affezionato a lui e diceva sempre che non voleva più fare la guerra contro di noi. Gli ordinai di tornare indietro, ma insistette tanto che fui costretto a lasciarlo venire.
Ci inoltrammo lungo un sentiero in direzione degli spari, un’altura dove sospettavo fossero appostati i tedeschi, considerando la direzione degli spari visti nella notte. E non tardai ad avere la certezza che avevo colpito a segno. Mentre stavo liberando il sentiero da un grosso ramo di castagno, una robusta spinta mi fece ruzzolare al suolo, mentre sentivo una scarica di mitraglia passarmi sopra la testa.
Da terra guardai il prigioniero, anzi il mio salvatore, che mi indicava una posizione in alto: mi alzai e vidi tra i cespugli alcuni tedeschi che stavano scrutando nella nostra direzione per accertarsi se eravamo stati colpiti.
Dopo aver osservato il terreno e il luogo, tornammo sui nostri passi e appena giunto in sede riferii a Bob dove, secondo me, si trovavano le posizioni tedesche.
Con Bob studiammo il piano d’attacco; fu disposto che il primo urto, e la conseguente conquista dell’altura, dovesse essere fatta da due gruppi delle due compagnie, cioè venti partigiani al mio comando e altri venti al comando di Boci, il vice comandante della compagnia di Pirì. Non fu difficile scegliere gli uomini perché tutti volevano fare parte dell’impresa. Giorgio, il mio vice comandante, chiese a Bob il permesso di sostituirmi nell’azione; insistette e allora il comandante mi ordinò di prendere il comando delle forze di rincalzo Poi mi si avvicinò Mao, vicecommissario di compagnia, pregandomi di lasciarlo andare. «Trovati tu stesso chi ti cede il posto!» gli dissi. E allora vidi Mao discutere con Neo, il commissario, e poi fare pari e dispari. Fu così che anche Mao partì col gruppo di testa.
Lasciata Cà di Malanca, Boci, che guidava il gruppo avanzato, discese lungo la sella che separa una collinetta che si trova presso la casa situata sull’altura dove c’erano i tedeschi, seguito dagli uomini, in fila indiana. Ma nel momento stesso in cui Boci giungeva sotto il monte, i tedeschi, favoriti dalla posizione, aprirono il fuoco con una mitragliatrice, mentre, con una seconda, tenevano a distanza il gruppo di rincalzo. Boci, Meo e Giorgio, che si trovavano molto avanzati, riuscirono a fare fronte ai primi assalti, colpendo al fianco i tedeschi, mentre gli altri partigiani, più arretrati, dovettero tenersi riparati dietro gli alberi e le rocce.
Boci chiamò i suoi uomini, li incitò ad avanzare, ma il fuoco della mitraglia era così intenso che non potevano fare un solo passo senza il pericolo di farsi massacrare.
La nostra mitragliatrice, piazzata sulla collinetta di fianco alla casa, che doveva proteggere l’avanzata, sparò tre colpi e poi s’inceppò e Giorgio cadde colpito a morte e Mao s’accasciò sul sentiero gravemente ferito.
Rimase soltanto Boci a tenere testa, col suo « Sten », alla valanga dei tedeschi che scendevano dall’altura; come li vedeva arrivare, a tiro avvicinato, li falciava inesorabilmente. Poi scorse, più in alto, un soldato coperto da un telo da tenda che gesticolava e dava ordini; cercò di colpirlo una volta, una seconda, poi finalmente lo vide cadere e, come per incanto, i tedeschi non scesero più. Boci rimase al suo posto, sempre all’erta, e intanto pensava per quale motivo non aveva sentito sparare le nostre mitragliatrici. La seconda mitraglia era stata colpita dal mortaio e Bill era rimasto ferito. Attese ancora e poi ordinò agli uomini di ripiegare, chiedendo a Slec di aiutarlo a portare Mao, che era ancora vivo.
Nel frattempo i tedeschi tentarono di attaccare Ca’ di Malanca per altra strada, ma ebbero il loro avere dal resto delle compagnie appostate davanti alla casa e si ritirarono.
Nel pomeriggio l’artiglieria inglese martellò con insistenza le nostre posizioni a Ca’ di Malanca e due giovani partigiani, Todt e Slec, ancora lui, sfidarono le cannonate per issare una bandiera tricolore sul tetto. Allora l’artiglieria alleata cessò il bombardamento, ma cominciò allora quella tedesca che continuò fino a sera.
Vista l’impossibilità di superare le linee tedesche, in quanto troppo ben tenute, ricuperammo il corpo di Giorgio che seppellimmo nei pressi della casa, e abbandonammo Ca’ di Malanca per un nuovo schieramento. In questa prima fase della battaglia di Ca’ di Malanca erano caduti Giorgio e Ivan, un soldato sovietico, mentre Mao e gli altri feriti, catturati in seguito dai tedeschi quando occuparono l’infermeria, finirono fucilati.
Nei giorni successivi la battaglia ebbe nuovi e gravi sviluppi e terminò solo a metà ottobre col congiungimento delle nostre forze con gli alleati».

Amato Rossi a Ca’ Malanca con la bandiera della Compagnia di cui era comandante

Da “La Nuova Ferrara, 24 gennaio 2006
Addio, Amato
Si è spento poco più di un mese fa, all’età di 89 anni, Amato, Afro Rossi all’anagrafe, comandante partigiano, vero combattente per la causa della Libertà e della Democrazia nell’Italia occupata dai nazi-fascisti, un filese di cui andare orgogliosi, un amico.
Era salito in montagna nella primavera del ’44 compiendo convintamente la scelta di combattere in armi gli occupanti tedeschi ed i collaborazionisti repubblichini. Complessivamente furono sei i filesi della ‘Bianconcini” che proprio Amato, responsabile locale del Partito Comunista, aveva mobilitato. Con lui: Maurelio Tirapani (Böci), Vincenzo Natali (Cencio) e tre giovani che non tornarono più alle loro famiglie: Pietro Liverani (Pirl), Ainis Tirapani (Baröni) e Mario Guerra (Mao).
Amato partecipò a molte azioni che la 36ª Brigata Garibaldi ‘Bianconcini” compi nell’estate del ’44, dopo la riorganizzazione che aveva seguito i rastrellamenti di fine maggio e dopo che le fila partigiane erano notevolmente cresciute di numero. Fu scelto da Bob (Luigi Tinti), Comandante di Brigata, per guidare la 14ª compagnia, il reparto che poi, secondo le sue direttive, dovette attaccare i tedeschi a Ca’ di Malanca la mattina del 10 ottobre del 1944, nel tentativo di congiungersi all’esercito alleato.
Fu una battaglia sanguinosa, quella cosiddetta di Purocielo, che durò alcuni giorni; una battaglia che vide la Compagnia di Amato battersi strenuamente nonostante le molte perdite. Fallito l’obiettivo divenne fondamentale, per tutta la brigata, lo spostamento in altro settore, al fine di salvare il grosso degli effettivi dagli attacchi tedeschi. Spezzatasi in due tronconi la brigata sotto uno di questi attacchi, Amato comandò il secondo gruppo di circa 300 uomini riuscendo, dopo alcuni giorni, a raggiungere gli alleati a San Benedetto in Alpe, senza ulteriori perdite.
Era l’ultimo dei partigiani filesi della Bianconcini ancora in vita, Amato, e ricordava spesso con commozione i suoi caduti, in suoi compagni della Resistenza.
Ricordava i momento delle scelte dolorose, quando ad esempio si trattò di lasciare in consegna i feriti all’infermeria partigiana, poi barbaramente trucidata dai fascisti assieme ai feriti. Ricordava soprattutto lo spirito e la vita di gruppo sui monti, i rapporti quasi paritari fra il comandante ed i suoi combattenti, l’importanza che rivestiva il «commissario», che lui definiva «la mamma di compagnia», ricordi lontani, ma ancora vivi, come la fiamma che arde sempre nel cuore generoso.
Lo intervistai all’inizio del 2004, quando stava ancora molto bene, perché il valore delle sue memorie non venisse disperso, perché il gesto di quei sei giovani partiti dalle pianure della bassa per andare a combattere su monti lontani, che, quando il cielo è terso, si intravedono appena sopra la linea degli argini del Reno, fosse ricordato degnamente, nel 60º anniversario di quegli avvenimenti.
Non ho provato mai alcuna sorpresa nel sentire dalla sua viva voce il racconto di quei giorni.
Ho sempre conosciuto Amato per come me lo descriveva mio padre, anch’egli un partigiano che aveva perso la mamma. Agida Cavalli, assassinata dai fascisti nel febbraio del ’44 mentre cercava di farlo fuggire dalla casa accerchiata dalle camicie nere. Ebbene, ricordava mio padre, nei giorni in cui non si aveva neppure il permesso di seppellire la nonna, perché i fascisti pretendevano un’assurda assunzione di responsabilità della famiglia, quando per chiunque era già un azzardo buttare uno sguardo pietoso verso la casa dove si piangeva una cosi triste ed infame tragedia, fu proprio Amato, il solo coraggioso Amato che, senza paura, infilò la porta di casa per confortare una famiglia colpita al cuore, incurante di ogni conseguenza.
Nessun stupore, quindi, né per ciò che, in tutta modestia ed umiltà, ha saputo dare in gioventù per la Libertà d’Italia sui monti della Romagna, né per il toccante ed espresso desiderio di chiedere che, a morte avvenuta, le proprie ceneri siano per sempre sparse sui monti di Cà Malanca, là dove combattè aspramente e dove riposano molti suoi caduti.
Addio Amato Rossi, filese, partigiano e patriota. Eri uno di noi.

* Algide Vandini, segretario della Sezione Anpi di Filo, è autore di numerosi testi dedicati alla storia ed alla folclore della Romagna. La sua pubblicazione più recente ha come titolo ‘Sotto l’ombra di un bel fior” (Faenza, Edit., 2005) ed è dedicata alle vicende alla 36ª Brigata Garibaldi che operò nei dintorni di Brisighella e sui monti della Romagna.