La presenza di partigiani sovietici in Italia è una pagina forse meno nota, ma molto importante.
Con l’«Operazione Barbarossa» della Germania Nazista vennero fatti prigionieri, senza una precedente dichiarazione di guerra, cinque milioni di soldati dell’Armata Rossa. Tra le loro destinazioni, per lo più per svolgere lavori lavori ausiliari e manuali per l’edificazione di rifugi e infrastrutture varie non mancava l’Italia. Parte di questi prigionieri, dai cinque ai settemila, disertarono e abbracciarono la causa partigiana, vedendo la possibilità di combattere contro il nemico comune e contribuire alla sua sconfitta. Erano combattenti tecnicamente superiori in quanto avevano sulle spalle l’addestramento nell’Armata Rossa e nella Wehrmacht, e fuggivano dai nazisti con le armi, supportando i nostri giovani partigiani italiani più inesperti. Presero parte con coraggio alle operazioni più importanti.
Nelle brigate partigiane dell’Emilia- Romagna la presenza sovietica è una delle più numerose, con più di novecento combattenti e più di ottanta caduti in combattimento.
Sul ruolo importante svolto dai partigiani russi c’è una bella testimonianza di Mario Cavina, il partigiano Tigre di Casola Valsenio: «il rifiuto e il superamento di abitudini derivate dal fascismo e dalle precedenti esperienze di vita militare erano favoriti dal vivere con persone che non avevano conosciuto il primo e avevano ben altre tradizioni militari. Ricordo che con noi erano tre russi i quali se prendevano il rancio per primi si limitavano scrupolosamente a prendere la loro parte, mentre c’era anche chi provava a prenderne di più a scapito degli altri e i russi gli chiedevano: “perché?”».
Sull’arrivo dei sovietici tra i partigiani una documentazione è nel libro sulla Resistenza nei monti di Casola: «il giorno 13 settembre una squadra partigiana intercetta nei pressi Monte Romano una pattuglia di quattro tedeschi che scorta un prigioniero russo: i tedeschi rimangono uccisi mentre il russo entra a far parte della 36ª dove già combattono alcune decine di suoi connazionali».
Due russi facevano parte del gruppo di Amato e il 10 ottobre erano tra i volontari pronti all’attacco da Ca’ Malanca per tentare di sfondare il fronte e raggiungere gli inglesi. Giorgio fu colpito in quella mattina con un colpo di mortaio da 81 tedesco giunto nella postazione dove il mitragliere sovietico con la sua Breda era un punto di riferimento, tanto che la sua morte provocò grosso smarrimento tra i compagni che lo aiutavano a manovrare l’arma.
Nella stessa fase della battaglia un altro russo chiamò Amato per chiedergli di dargli il binoco per andare a fare un’ispezione. Amato non lo vide più e, «dopo sette, otto anni trovarono uno scheletro dietro al mio binocolo e sulla base di questo si stabilì che era lui Sergio», Panof di Tula.
Altri due russi, Michel e Nikolai, si trovarono il giorno successivo sull’altura di Monte Colombo e insieme ad altri quattro partigiani scesero nel dirupo verso la Faentina. Superata Ca’ Riva si scontrarono con i tedeschi e dopo un breve scambio di colpi tornarono alla casa inseguiti. Due sfuggirono alla cattura, rifugiandosi fino a notte sotto un anfratto del rio S.Eufemia, due furono catturati e fucilati a Bologna e dei due russi non si è saputo più nulla. Probabilmente, riconosciuti per tali, furono uccisi sul posto.