Nell’estate del 1944 vivevo con la mia famiglia a Ca’ di Malanca. Eravamo coltivatori diretti, ma la produzione era talmente scarsa che il nostro tenore di vita era leggermente superiore a quello dei nostri vicini mezzadri. Ca’ di Malanca era formata da due abitazioni distinte: in una abitava la mia famiglia di sei persone e nell’altra la famiglia di mio zio di sette persone. Vi erano anche due famiglie di sfollati e tutti dipendevamo dai magri raccolti dei nostri campi.
Dei partigiani avevamo poche ed imprecise notizie: si diceva che fossero dei banditi che bruciavano le case. Il primo che ce ne parlò chiaramente fu don Chesi, il parroco di Fornazzano, il quale alla vigilia di un rastrellamento nazifascista ci chiese se potevamo ospitare nel nostro fienile cinque partigiani che teneva nascosti nel campanile e se scoperti sarebbero stati uccisi e con loro anche chi li proteggeva.
Fu in quella occasione che ci spiegò che i ragazzi chiamati banditi o ribelli erano della brava gente e consigliò anche ai miei due fratelli di entrare nelle formazioni partigiane. I cinque giovani, che erano renitenti, si fermarono da noi per un sol giorno e quindi si aggregarono alla formazione di Silvio Corbari.
A ferragosto giunse un gruppo di partigiani di Casola e di Borgo Rivola (circa una decina) che si fermarono da noi per alcuni giorni dormendo nel fienile e usando il nostro forno per cuocere il pane, ma tenendo per il resto un atteggiamento molto riservato.
In uno dei primi giorni di settembre vedemmo l’aia invasa da una intera compagnia partigiana: quasi cinquanta uomini, che sapemmo poi far parte della 36ª Brigata Garibaldi. Il comandante Gino e il commissario politico Winco chiesero a mio padre se potevano fermarsi per in periodo che poteva essere anche molto lungo.
Mio padre rispose: «restate quanto volete; però dovrete arrangiarvi, vedete come siamo numerosi e come sono misere le nostre condizioni». Gino lo rassicurò: «Non prendiamo niente, ci basta un posto per dormire e per cucinare».
Dopo i primi giorni di una comprensibile diffidenza, tra i partigiani ed i civili di Ca’ di Malanca si creò un tale rapporto di fratellanza, tanto che sembravamo essere una unica famiglia: i partigiani dormivano nel fienile, nella stalla o sul pavimento della cucina avendo lasciato ad ognuno di noi la sua camera, ma durante il giorno si cucinava e si mangiava insieme e per noi fu un grosso vantaggio in quanto dopo tanto tempo disponemmo di una certa abbondanza di carne e di vino e di altri generi che mancavano anche nei negozi di S. Cassiano.
Un giorno un giovane partigiano s’impadronì di un lenzuolo che avevamo abbandonato nell’aia per farsi degli indumenti. Quando il comandante Gino lo seppe, condannò il povero giovane ad un giorno di palo. Mia madre, mossa a compassione dalla posizione dolorosa in era costretto il giovane e soprattutto dalla sua età, pregò Gino di liberarlo dato che il lenzuolo era vecchio e rotto e a noi non serviva più: fu la supplica che avrebbe fatto la madre del ragazzo se fosse stata presente. Gino fu inflessibile e il partigiano rimase al palo per un giorno intero in quanto – ci fu spiegato – i partigiani avevano ordine tassativo di non impadronirsi dei beni dei contadini senza il loro consenso o senza pagarli.
Un’altra volta due partigiani tornarono con dei polli che non avevano pagato: Gino si informò da mia madre sulle condizioni economiche della famiglia a cui erano stati sottratti e saputo che si trattava di una famiglia numerosa e con poche risorse li rispedì urlando a pagare i polli e a riportargli la ricevuta.
La nostra casa si trovava entro l’area controllata dalla 36ª così che la vita trascorreva relativamente tranquilla: i partigiani durante il giorno si esercitavano, pulivano le armi o riposavano se erano stati incaricati di azioni nel corso della notte. C’erano anche momenti quasi di spensieratezza ed in fondo era naturale, anche se c’era la guerra, dato che la maggior parte dei partigiani aveva poco più di venti anni: la sera, un polacco suonava l’armonica a bocca e due russi ballavano una danza tipica del loro paese mentre tutti noi facevamo circolo intorno e cantavamo, anche canzoni mai sentite prima come «Bandiera rossa».
Don Chesi era molto stimato dai partigiani che lo consideravano un loro amico, un parroco moderno – dicevano – tanto che Gino e Winco si recavano spesso a Fornazzano, al contrario del parroco di S. Andrea profondamente detestato dai partigiani che gli giocarono un brutto scherzo: rubategli le vesti dei confratelli e alcune tonache, una domenica mattina organizzarono una processione attorno a Ca’ di Malanca sotto gli sguardi scandalizzati delle religiosissime donne della casa che, facendosi ripetuti segni di croce, pronosticavano la dannazione eterna per gli irriverenti giovani.
Tutte le sere il commissario politico impartiva «l’ora di politica» a cui partecipavano tutti gli uomini liberi, compresi i miei fratelli. Mio padre invece si teneva in disparte in quanto – come tanti contadini anziani – era contrario alla politica e alle tessere tanto che fu imprigionato per alcuni giorni per essersi rifiutato di farmi prendere la tessera di «Giovane Italiana».
Noi donne assistevamo alle riunioni qualche volta, forse più per curiosità che per interesse. Discutevamo sui rapporti tra contadini e padroni e su come si sarebbe organizzata la vita dopo la sconfitta dei fascisti. Quando parlavano della loro situazione c’era anche chi ammetteva di aver paura: ricordo che un partigiano giovanissimo di Castelbolognese ripeteva continuamente che voleva tornare a casa da suo padre e da sua madre, che non voleva morire lassù, ma gli altri lo convinsero a restare perché a Castelbolognese sarebbe stato sicuramente catturato e fucilato.
Terminata l’ora di politica, il commissario o il comandante radunavano le squadre GAP ed impartivano gli ordini per le azioni cattura di spie, prelevamento di armi, approvvigionamento di viveri. Le squadre, composte di cinque o sei elementi, partivano immediatamente ed erano di ritorno prima dell’alba. Quando portavano dei prigionieri questi venivano rinchiusi sotto sorveglianza in uno stalletto per tutto il giorno e la sera trasferiti a Molino Boldrino dove aveva sede il comando.
I partigiani ci aiutarono anche nel lavoro: per la trebbiatura si alternarono a gruppi di quattro per azionare una vecchia trebbiatrice a mano e il grano ci fu lasciato tutto. Noi donne per sdebitarci cucinavamo i loro vestiti, i fazzoletti rossi con la falce e il martello, usando ciò che si poteva reperire nella zona: i lenzuoli servirono per confezionare dei pantaloni corti; con delle tinta colorammo di rosso le camicie, i fazzoletti e la fiamma della compagnia.
Il comando teneva i contatti con la compagnia di Gino tramite una ragazza che qualche volta si fermava da noi per aiutarci a cucire e a rammendare per i partigiani. In quelle occasioni parlavamo spesso di quale era la vita delle donne partigiane e dei motivi che le avevano spinte a quella scelta dato che circolavano voci secondo le quali le ragazze erano state reclutate nelle case di tolleranza della città o avevano dovuto abbandonare i loro paesi perché moralmente screditate.
Quando le parlai di questo la ragazza sorrise e mi disse che lei e le sue compagne erano lì per aver voluto seguire i fratelli e il moroso ma anche come scelta politica perché sentivano che, anche se donne, era loro dovere combattere i nazifascismi anche con le armi.
Verso la fine di settembre, nella chiesa di Fornazzano ci fu il matrimonio di un partigiano di Casola inquadrato nella 36ª alla cerimonia erano presenti tutti i civili e tutta la compagnia (a parte le guardie lasciate fuori della chiesa). Un partigiano suonava l’organo e un altro cantava mentre il parroco celebrava e fu una vera cerimonia nuziale anche se l’abbigliamento dei presenti non era dei più appropriati. Il pomeriggio festeggiammo gli sposi e ci fu anche chi fece loro dei regali, poi ballammo, ma la serata fu rovinata da movimenti di truppe tedesche nelle vicinanze.
Ca’ di Malanca divenne infatti zona di guerra e noi civili fummo costretti a sfollare tranne i miei fratelli e mio padre che si aggregarono alla compagnia partigiana e la seguirono nelle dure battaglie che la 36ª dovette affrontare in quell’autunno del 1944.
Testimonianza tratta da Amilcare Mattioli, Giuseppe Sangiorgi, La Resistenza sui monti di Casola, 1994, pp. 164-166.