Nato a Cotignola il 10 dicembre 1926. Licenza elementare. Operaio.
Militò nell’8ª Brigata Garibaldi attiva nell’Appennino forlivese.
Rimasto ferito il 12 aprile 1944 nel combattimento di Monte Falterona, si ristabilì ed entrò nella 36ª Brigata Bianconcini Garibaldi assumendo la carica di Comandante di squadra.
Capo squadra nella 36ª Brigata Garibaldi (1943-1945). Vigile urbano. (1968). Risiede a Lugo.
Appena guarito mi riunii ad altri compagni della Romagna e, i primi dell’agosto 1944, raggiunsi con loro la 36ª brigata che in quel periodo si trovava nella zona fra la Bastia e il Carzolano, nel cuore della linea « Gotica ». Proprio mentre noi entravamo nella zona della brigata, i partigiani della 36ª stavano concludendo vittoriosamente una battaglia che li impegnava da giorni nella zona della Bastia: il nemico, che da tempo cercava di sfondare, era stato già respinto in più punti e la vittoria completa non tardò a venire.
Noi eravamo circa un trentina, tutti giovani della zona di Lugo, Faenza, Solarolo, Argenta, Massalombarda e Castel Bolognese. Dopo due giorni di marcia arrivammo al comando e, durante il tragitto, facemmo prigionieri due tedeschi nella zona di monte Faggiola, ma uno di questi, approfittando dell’oscurità e della inosservanza da parte nostra, tentò la fuga, scivolando in un burrone e nascondendosi fra i cespugli. Noi dicemmo all’altro prigioniero che se non chiamava il suo camerata lo avremmo fucilato e questi, a sua volta, in lingua tedesca, implorava il suo camerata di ritornare: il fuggitivo allora uscì dal nascondiglio.
Da quel momento fu disposta la massima sorveglianza: noi volevamo infatti consegnarli al comando della brigata per essere sottoposti ad interrogatorio.
Quando fummo al comando, Bob, che era il comandante della 36ª brigata, ordinò di inquadrare e rafforzare con qualche unità nuova le compagnie ancora impegnate nella lotta. Io fui incorporato nella 12ª compagnia, comandata allora da Lupo di Casola Valsenio, ed ebbi la fortuna di unirmi ad un mio grande amico, oltre che compagno di battaglia, Esiade, un ragazzo come me, di 18 anni, del mio stesso paese. Partimmo, raggiungemmo i compagni, stanchi anche loro, ma col volto sereno, combattemmo al loro fianco per qualche ora, poi i tedeschi, visto che non riuscivano nel loro intento, si ritirarono lasciando sul terreno dei morti e anche qualche ferito. Anche fra le nostre fila vi furono delle perdite e diversi feriti gravi.
Nei giorni seguenti, visto il fallimento dell’offensiva diretta e considerata l’importanza della zona che la brigata occupava, ormai a ridosso del fronte, in un punto del più alto interesse strategico, i tedeschi decisero di attaccare la brigata a distanza, sparando con cannoni e mortai contro le case e le postazioni partigiane.
Per qualche giorno si restò ancora sul posto, poi il comando decise, allo scopo di evitare perdite in una impossibile lotta a distanza, di spostare tutti gli effettivi più a valle, in direzione di Casola Valsenio. Tutti comprendemmo l’esigenza del fatto, però la decisione lasciò un segno nel morale di molti: non fu facile, infatti, abbandonare la zona dalla quale la brigata aveva sferrato tanti attacchi vittoriosi e più volte ricacciato i tedeschi e i fascisti.
Alla fine di settembre fu deciso un nuovo schieramento di lotta, e la brigata fu divisa in battaglioni. Bob illustrò ai giovani il piano di attacco che si stava preparando in direzione di Bologna, Imola e Faenza e fece capire chiaramente i pericoli cui si andava incontro e disse anche che, se qualcuno non se la sentiva, poteva andarsene.
Alcuni nostri compagni che fino a quel momento avevano combattuto con noi, abbandonarono la brigata, ma furono poche unità. Quasi tutti rimanemmo a fianco dei nostri comandanti i quali, fino a quel momento e a quel giorno, avevano saputo reggere nel migliore dei modi le sorti della brigata.
Dopo questa pausa, il comando della mia compagnia venne assunto da un ragazzo di Castel Bolognese, per la rinuncia da parte di Lupo, e il nuovo comandante, che si chiamava Kaki (Dato Cavallazzi), aveva in breve tempo saputo accattivarsi la simpatia di noi tutti e la decisione ci sembrò giusta. Io ero comandante di una squadra col nome di battaglia Tarzan, nome che avevo nella vecchia brigata e questo nome mi portò fortuna. Nella stessa giornara il comando decise di trasferirsi nei pressi della «Canovazza del Diavolo», nella parrocchia Fornazzano-Brisighella. Ci fu qualche giorno di tranquillità; eravamo attestati in una zona da cui si dominava tutta la valle sottostante che domina la strada Casolana. Questa tranquillità però non durò molto.
Il giorno 12 settembre, nel pomeriggio, la vedetta di servizio in cima al monte avvistò una pattuglia di tedeschi che si avvicinava alle nostre linee; diede l’allarme e noi, pronti, ci portammo in cima al monte per affrontare i tedeschi e respingerli.
Difatti, dopo breve sparatoria, il nemico si ritirò nella linea di partenza, rinunciando, almeno per il momento, al suo intento. Ma tutto questo non piacque né a noi né ai nostri dirigenti che diedero ordine di aumentare il servizio di guardia, poiché era presumibile che i tedeschi ritornassero di nuovo con forze ingenti.
L’ordine era di tenere gli occhi ben aperti, specialmente verso l’alba.
Così fu. La mattina del 13 settembre, le nostre vedette diedero di nuovo l’allarme; in breve tempo arrivammo in cima al monte, e ci appostammo in attesa di scatenare l’attacco. Nel posto c’erano tre compagnie concentrate. A un certo momento iniziò la battaglia. I tedeschi e i fascisti erano circa trecento e bene armati, con mitragliatrici, mortai, cannoncini da montagna, armamento molto superiore al nostro, tanto che loro facevano un fuoco incrociato da distanza. Ma, nonostante la loro superiorità di fuoco, per loro non fu facile. Cominciammo a rispondere al fuoco con armi leggere, fucili, mitragliatrici e bombe a mano, e durante la battaglia il mio amico Esiade e il suo portamunizioni caddero mentre eranoattaccati alla mitragliatrice.
Eravamo in combattimento da circa quattro ore, quando il comandante della brigata, Bob, che era sempre stato in prima linea, si alzò in piedi e lanciò l’ordine di contrattaccare. Fu come una nube di polvere; noi tutti ci alzammo e contrattaccammo i tedeschi che, sorpresi, iniziarono una ritirata disordinata. Fu in quel momento che il nostro coraggioso Esiade, mentre stava facendo cantare quella che chiamava la «fidanzata mitraglia» ed incitava i compagni a battersi con coraggio, fu colpito da un colpo di mortaio che si abbatte nella sua provvisoria postazione, colpendolo a morte. Il giovane partigiano Costa, di Solarolo, essendo a pochi metri da lui e rendendosi conto delle gravissime condizioni del compagno, che dava ancora qualche segno di vita, gli corse incontro e se lo mise sulle spalle per portarlo nell’infermeria, che distava circa due chilometri; ma purtroppo arrivò una seconda granata. Il povero Esiade moriva col suo soave sorriso sulle labbra. In quel giorno, in quell’ora, si spegneva uno dei nostri migliori giovani. Il Costa, nel tentativo di strappare alla morte il giovane compagno di battaglia, rimase ferito abbastanza gravemente ed io trovandomi a poca distanza, mi precipitai su di lui per condurlo in infcrmeria dove rimase diversi giorni per curarsi le ferite interne.
Nel frattempo, il resto dei miei compagni, con alla testa il comandante di brigata, continuava ad incalzare i tedeschi in ritirata disordinata fino alla strada Casolana e al fondo valle. I pendii erano cosparsi di cadaveri di tedeschi e vi eranoanche molti feriti. Fra le nostre fila avemmo tre caduti (Esiade e il portamunizioni Enea, un fabbro di Casola e Cesare il mitragliere), qualche ferito e fra questi il nostro comandante Kaki.
Da quel momento nella nostra compagnia vi fu di nuovo un cambiamento: il comando, a causa della ferita di Kaki, fu assunto da un giovane imolese, Rossi Rino, chiamato Ribelle. Restammo nella zona ancora qualche giorno e poi tutta la brigata venne giù a valle, verso Pideura, e qui un battaglione, comandato da Carlo-Nicoli, un tecnico della « Cogne », venne trasferito al monte Battaglia e noi ci trattenemmo ancora per qualche tempo. Poi di nuovo fummo attaccati dai nazifascisti, ma sempre le battaglie si svolsero a nostro favore. Dopo poco tempo ancora un nuovo ordine di trasferimento: il fronte era ormai a pochi chilometri.
Questa volta verso Casa Malanca e torrione Calamello, nel brisighellese. Vi erano poche case in questa zona e, in alto, sul torrione, fu insediata l’infermeria per curare i nostri feriti. Ci attestammo lì per affrontare il nemico che prima o poi avrebbeattaccato le nostre forze. Gli alleati in quel periodo erano tanto vicini che a volte si udiva la fucileria delle parti opposte e noi ci facevamo coraggio perché c’era speranza che presto tutto finisse.
A cominciare dal 9 ottobre fummo attaccati da reparti tedeschi che provenivano da tutte le parti e per noi non c’era via di scampo. Eravamo lì, rinchiusi in una morsa di ferro, ed i tedeschi battevano la zona con armi leggere e mortai. Sembrava un inferno, era una tempesta, un uragano di piombo che si abbatteva su di noi e in quel momento cominciammo a pensare di non uscirne vivi. Fra l’altro non si mangiava più da giorni. Insomma, avevamo la sensazione di essere in una tomba. Avemmo molti feriti, anche gravi, e qualche caduto. E si combatteva sempre.
Si fece sera e i tedeschi, come nella precedente giornata, si ritirarono e si limitarono a sparare coi mortai. Non ci davano tregua, non si poteva riposare, era; solo un incubo, una tortura che non voleva cessare. I feriti venivano curati alla buona e i medici facevano tutto il possibile, sprovvisti com’erano dei mezzi necessari.
La mattina seguente, all’alba, ricominciò di nuovo. Le forze tedesche tornarono all’attacco, come nelle giornate precedenti: si sparava, si sparava tanto che a volte non si capiva da che parte arrivassero i colpi. Il comando decise di inviare una pattuglia a qualche centinaio di metri dal torrione Calamello, ma era passato poco tempo dalla partenza quando una tempesta di granate cadde sulla pattuglia.
Questa volta però, era artiglieria alleata. I compagni dislocati nella zona si chiedevano come mai potesse accadere questo. Forse gli alleati, avendo notato il movimento e non distinguendo i tedeschi da noi, sparavano senza idee precise. Il comando inviò staffette oltre la linea per stabilire un contatto e poco dopo gli alleati cessarono il fuoco, ma non così i tedeschi che sparavano sempre senza una pausa.
Nel pomeriggio, il comandante Ribelle, il vice comandante ed io, ci spostammo di qualche centinaio di metri dalle nostre linee, per osservare meglio le postazioni tedesche, ma nel frattempo loro ci avevano notati e cominciarono a lanciare granate da mortaio su di noi. In un primo momento pensavamo di non uscire vivi da quella zona, ma ancora la fortuna fu dalla nostra parte e potemmo rientrare nella zona di partenza fra i nostri compagni.
Il giorno successivo i comandanti delle compagnie, coi rispettivi commissari ed il comandante di brigata, studiarono ancora una volta la situazione militare e vennero alla determinazione di attraversare la linea del fronte che distava pochi chilometri con l’intento di riprendere il combattimento una volta uniti agli alleati.
E così diverse compagnie, approfittando dello sbandamento del fronte tedesco, attraversarono le linee e si misero a disposizione degli alleati. Io, invece, insieme a qualche altro compagno, ritornai in pianura e mi misi a disposizione dei dirigenti locali del CLN.
Testimonianza tratta da Luciano Bergonzini, La Resistenza a Bologna. Testimonianze e documenti, Volume V, pp. 187-189
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