Nato e vissuto a Casola Valsenio. Ha pubblicato la testimonianza della sua esperienza di partigiano in Amilcare Mattioli, Giuseppe Sangiorgi, La resistenza sui monti di Casola, 1994, pp. 166-170. Basato sulla sua biografia è stato anche pubblicato: Cristiano Cavina, Fratelli nella notte, Feltrinelli editore, 2017, pp. 80.
[Testimonianza pubblicata nel 1994] L’armistizio dell’8 settembre 1943 mi colse sotto le armi e come tanti abbandonai armi e reparto e feci ritorno a casa, a Ca’ Batoli, vicino al Paese (Casola Valsenio, n.d.r.). Ripresi il lavoro dei campi e mi disinteressai dei grandi mutamenti politici di quei giorni e di quelli che seguirono. Quando la mia classe fu richiamata chiesi consiglio ai miei vecchi sulla strada da prendere, ma essi risposero che la scelta spettava a me, che il pericolo c’era sia a partire come a restare. Restai, anche a causa della precedente esperienza militare che mi aveva lasciato una profonda avversione per la guerra e per l’esercito. Per tutto l’inverno restai tranquillo a casa, essendo assegnato al servizio sedentario. Ricevetti alcuni inviti ad aderire alla GNR, ma rifiutai sia perché erano stati i fascisti a voler la guerra e a volerla continuare ora, ma anche perché ero cresciuto in una famiglia di sentimenti antifascisti. A primavera la mia posizione divenne insostenibile: o arruolarmi o darmi alla macchia. All’osteria dissi che sarei partito per arruolarmi e quindi mi nascosi in casa da cui uscivo solo la notte. Dopo un breve periodo di vita clandestina venni avvertito da un repubblichino (che era in contatto con i partigiani) che ero stato scoperto e che i capi della GNR locale potevano catturarmi da un momento all’altro. La notte, con i soli vestiti che indossavo, mi trasferii alle Banzole di Baffadi dove mi accolsero di buon grado benché conoscessero la mia posizione di disertore. Per sdebitarmi della ospitalità lavoravo nei campi e fu proprio mentre ero intento a mietere che venni avvicinato da due partigiani. Saputo che ero renitente mi prospettarono i pericoli che correvo restando in quella casa e la minaccia di rappresaglia verso la famiglia che mi ospitava. Quando mi salutarono mi avvertirono che se sceglievo la vita partigiana avrei potuto aggregarmi ad un gruppo di giovani casolani che a distanza di pochi giorni sarebbe salito in montagna. Ci pensai e decisi di partire: a Valdifusa mi aggregai ai casolani e, guidati da un paio di partigiani, raggiungemmo Sfirolo dove ci fecero sostare in attesa di qualcuno. Poco prima di mezzanotte giunse un gruppetto di persone, tra cui Angelo Morini di Riolo Bagni che ci tenne un breve discorso. Ci incitò a lottare contro i tedeschi e i fascisti; ci esortò a lottare per un futuro migliore senza la oppressione fascista; ci chiarì insomma i motivi politici ed ideali della nostra scelta che dentro di noi erano ancora amalgamati con motivi prativi ed utilitaristici. Riprendemmo poi il cammino per il Monte Carzolano dove si trovava la zona presidiata dalla 36ª Brigata «Garibaldi». Durante il lungo e faticoso trasferimento ebbi modo di ripensare con calma alle parole di Morini e il trovare dei validi motivi per una scelta tanto difficile e sofferta, poter vedere lo sbocco di una vita migliore al termine della dura lotta che ci aspettava in montagna mi rinfrancò e fece svanire la maggior parte delle apprensioni che mi avevano tormentato negli ultimi tempi. Il comando partigiano della 36ª mi assegnò alla compagnia di Amato dove, dopo avermi scherzosamente affibbiato il nome di Tarzan per la mia bassa statura, venni incaricato di accudire ai cavalli. Mi impegnai nel nuovo compito al limite delle mie possibilità così da evitare le missioni di guerra: l’esperienza militare mi aveva insegnato di non essere fatto per i combattimenti. Amato, che, come tutti i comandanti partigiani, conosceva e capiva i suoi uomini, si accorse della mia paura e mi tranquillizzò assicurandomi che si combatteva anche accudendo i cavalli e che l’aver scelto la lotta partigiana era già un grande atto di coraggio. In fondo però invidiavo il coraggio e la capacità dei compagni che colpivano i nemici persino nelle città con azioni rapide ed incisive, ma era più forte di me il desiderio di restarmene alla base. Non si era però completamente sicuro neanche nella zona della 36ª tanto che un paio di volte sfuggii miracolosamente al tiro nemico mentre portavo i cavalli ad abbeverare con l’unica difesa di un vecchio fucile «91». In montagna ebbi modo di fare preziose esperienze di vita sociale e politica. Durante le ore di riposo o mentre pulivamo le armi si accendevano discussioni politiche dato che vi erano partigiani di tutti i partiti, anche se i comunisti erano la maggioranza. Quando veniva però il momento di combattere lottavano fianco a fianco l’uno per l’altro e a volte morivano per il compagno col quali avevano tanto polemizzato. Il rifiuto e il superamento di abitudini derivate dal fascismo e dalle precedenti esperienze di vita militare erano favoriti dal vivere con persone che non avevano conosciuto il primo e avevano ben altre tradizioni militari. Ricordo che con noi erano tre russi i quali se prendevano il rancio per primi si limitavano scrupolosamente a prendere la loro parte, mentre c’era anche chi provava a prenderne di più a scapito degli altri e i russi gli chiedevano: «perché?». Dopo una iniziale partecipazione alle «ore di politica» ottenni da Amato il permesso di non continuare perché troppo teoriche per me, anche se Amato mi disse che era dovere di ogni cittadino farsi una coscienza politica, ma poi mi spiegò che le «ore» servivano soprattutto per formare i futuri quadri politici e sindacali. Il giorno più importante della mia esperienza di lotta partigiana fu il 10 ottobre quando partendo in 70 da Ca’ di Malanca muovemmo all’attacco dei tedeschi per congiungerci agli alleati. Amato aveva chiesto dei volontari per questa azione concertata insieme agli uomini di Pirì e io avevo alzato la mano. Il mio comandante si meravigliò e gli dovetti spiegare che la mia decisione dipendeva dalla disperazione: erano diversi giorni che eravamo sotto la pioggia ancora con vestiti dell’estate, pieni di pidocchi, con un mangiare scarso e discontinuo e soprattutto nessuno sapeva se era più pericoloso andare o restare. Fu subito chiaro che non basta la volontà di combattere; ci vuole la pratica delle armi e l’esperienza soprattutto nei combattimenti ravvicinati che si accendevano nelle macchie e negli anfratti attorno a Ca’ di Malanca. Le urla di incitamento, i lamenti dei feriti, il rumore degli spari e il sibilo delle pallottole mi impedivano di muovermi: accovacciato dietro un masso, con il mio vecchio fucile tra le braccia, stavo in attesa di un qualcosa che potesse scuotermi. Pochi metri più in là vidi Boci alzarsi contemporaneamente a tre tedeschi e falciarli con una unica lunga raffica. Pensai che al suo posto sarei stato sicuramente ucciso. Ma non potevo continuare ad aspettare che un tedesco potesse scoprirmi ed uccidermi in tutta tranquillità così che mi alzai di scatto per combattere anch’io. La prima cosa che vidi fu la canna di un fucile che un tedesco mi puntava contro: mi lasciai cadere sulle ginocchia e nello stesso attimo pensai che non avrei più visto i miei e sentii il sibilo caldo della pallottola sfiorarmi la testa. Mi lanciai a corpo morto lungo la scarpata inseguito a non più di un paio di metri dal tiro di una mitragliatrice tedesca fino a raggiungere una posizione riparata. Dopo circa due ore dall’inizio dei combattimenti, Bob diede l’ordine di ritirarci per far posto a forze fresche. In quella occasione ebbi modo di vedere e di ammirare il coraggio del comandante della Brigata che da una altura, senza scoprirsi, sparava sui tedeschi per proteggere il nostro arretramento: il rispetto e l’ammirazione che noi tutti avevamo per Bob erano ben meritati. Quando fummo al sicuro mi sedetti contro un castagno per farmi una sigaretta. Stavo pensando a quante volte avevo rischiato la pelle quando avvertii una sferzata nel fianco; pensai: «Una scheggia – e di seguito – guarda come è facile morire» e quindi persi i sensi. Mi svegliai accanto al pagliaio di Ca’ di Malanca a causa del dolore che mi provocavano alcuni compagni nell’esaminarmi la ferita. Non essendoci medici si limitarono a fasciarmi strettamente e a trasportarmi a braccia in una casa vicina dove i contadini si dissero disposti ad ospitarmi insieme ad un partigiano di Riolo Bagni rimasto per assistermi. Verso sera passò un commissario partigiano che ci lasciò 3000 lire per i nostri bisogni: erano i primi soldi che vedevo da quando mi ero fatto partigiano. Il mattino successivo stavo già meglio anche se ero molto debole per il sangue perduto. La scheggia che mi aveva colpito era penetrata solo superficialmente e non mi procurava grossi fastidi (tanto che oggi è ancora lì). Sorretto dal mio compagno, che nel corso della notte mi aveva fasciato di nuovo e mi aveva ceduto la sua maglia essendo la mia insanguinata e a brandelli, ci mettemmo in cammino per allontanarci dal terreno dei combattimenti: restare avrebbe significato una morte sicura. Alla prima casa dove bussammo per chiedere alloggio ci aprì una donna che conoscevo, ma quando anche lei ci riconobbe come partigiani richiuse violentemente la porta. Il mio compagno ebbe un moto di rabbia ma io giustificai la donna con il terrore delle rappresaglie nazifasciste e poi non eravamo più nelle condizioni di dettare legge nelle campagne: la popolazione contadina era rimasta alla mercé delle truppe tedesche in ritirata che non risparmiavano niente e nessuno. Riprendemmo la strada verso Casola e a metà giornata incontrammo Genoveffa Morini, una staffetta partigiana, la quale rintracciò mio fratello e con lui raggiungemmo la Fabbrica dove il dott. Spada mi fece la prima vera medicazione. Lasciata la Fabbrica il partigiano di Riolo, dopo esserci divisi i soldi rimasti, mi lasciò affidandomi a mio fratello. Rimasi nascosto una decina di giorni nel fienile di Castagnardizzo, da dove mi prelevarono una mia cugina e un ex fascista di Casola che aiutava i feriti i quali mi sistemarono in un rifugio ricavato in una scarpata presso di Ca’ Batoli in attesa di rimettermi in forse. Erano un paio di giorni che me ne stavo rintanato ricevendo solo la visita dei parenti che mi portavano da mangiare, quando udii distintamente delle voci tedesche; la cosa non mi preoccupò sia perché era abbastanza frequente sia perché l’entrata del mio rifugio era stata occultata con molta cura. Sfortunatamente le artigliere alleate scatenarono proprio in quel momento un furioso bombardamento e tre o quattro tedeschi, per ripararsi, penetrarono per caso dentro il rifugio. La loro sorpresa superò certo la mia, ma ero io nelle condizioni peggiori: ferito e senza armi alla mercé di tedeschi in ritirata. Tra le molte parole riuscii a capire: «Tu partigiano ferito». Con gesti e parole riuscii a far loro capire che ero stato costretto dai tedeschi a trasportare armi verso Monte Battaglia e qui ero rimasto ferito; ci pensarono un attimo poi salutandomi con «Tu buono camerata» se ne andarono. Rimasto solo mi accorsi che mi ero pisciato addosso dalla paura. Rimessomi in forze mi spostai a Ca’ Batoli dove ero costretto a nascondermi per il continuo passaggio di truppe tedesche verso i Gessi. Una notte due tedeschi giovanissimi penetrarono nella stalla mentre dormivamo e dopo aver saputo la posizione delle truppe inglesi ci chiesero di seppellire le loro armi e si avviarono verso le linee alleate. Un altro giorno una pattuglia tedesca nascose armi ed equipaggiamento sotto la paglia della nostra stalla. Due giorni dopo vennero due tedeschi conducendo due civili e con la minaccia delle armi ci costrinsero a portare le armi abbandonate fino a Montebattagliola. Qui facemmo una sosta; i tedeschi telefonarono al loro comando e quindi ci ordinarono di proseguire verso le loro retrovie. Prima di riprendere il camino approfittai di un attimo di disattenzione dei nostri sorveglianti e del buio della notte per lasciarmi cadere lungo una scarpata e quindi me ne tornai a casa dove rimasi fino all’arrivo degli alleati.
Presentazione editoriale di: Cristiano Cavina, Fratelli nella notte, Feltrinelli editore, 2017, pp. 80.
Mario è un giovane contadino romagnolo, semplice e mite. Non ha sogni né desideri, e accetta con atavica rassegnazione la dura vita di lavoro e fatica che il destino gli ha assegnato. La sua esistenza procede così, nella ciclicità dell’alternarsi delle stagioni. Al compimento dei diciotto anni Mario riceve la cartolina di leva della Repubblica sociale: è il 1944 e per paura delle armi si sottrae all’arruolamento. Si rifugia prima da alcuni lontani parenti, aiutandoli nei lavori più pesanti in cambio dell’ospitalità. Ma la sua presenza è un pericolo per tutti, così si unisce alla 36a brigata Garibaldi. Lì, per la sua mitezza e la sua semplicità, viene esentato dalle azioni militari; si occupa dei muli e dei cavalli, con i quali solamente sembra a suo agio, e per questo legame con le bestie e per la comica rapidità delle sue fughe terrorizzate nei boschi all’arrivo dei tedeschi, gli viene dato come nome di battaglia Tarzan. Nonostante i suoi sforzi per nascondersi dalla storia, però, si ritrova in prima linea e per farcela è costretto a contare solamente su Giovanni, suo fratello. Ma Giovanni è più vecchio di quindici anni: i due sono quasi estranei, tanto che Mario lo ha sempre temuto e non sa prevedere come risponderà a una richiesta di aiuto tanto rischiosa. Con un respiro ampio che dà nell’epico, uno stile potente e asciutto, in grado di rappresentare gesti autentici e dialoghi di poche parole cariche di verità, Cristiano Cavina racconta una storia che si legge d’un fiato, commovente ed emozionante proprio perché priva di qualsiasi idealizzazione, di qualsiasi nostalgia. Soltanto due fratelli davanti al discrimine fra vivere e morire, senza mostri né eroi; soltanto un ragazzo spaventato che cerca di sopravvivere e un uomo costretto a scegliere se rischiare la vita per salvarlo.
Nato a Palazzuolo sul Senio nel 1926. Nel 1944 mezzadro del podere di Piano di Sopra. A Piano di Sopra durante la battaglia di Purocielo abitavano anche la zia Emilia Tronconi, vedova di Francesco Visani, con tre figli e molti sfollati da Faenza. Il podere di Piano di Sopra era buono: produceva cento quintali di grano, frumento, patate. La stalla aveva dodici tra mucche e buoi. Esistevano vari filari, cioè la vite in coltura promiscua.
[Testimonianza rilasciata nel 1969] Nell’ottobre 1944, la nostra casa a Piano di Sopra venne occupata da una settantina di partigiani della 36ª Brigata Garibaldi, comandati da uno che si chiamava Tito. Questi partigiani erano già nella nostra zona da un po’ di tempo e noi del posto non ci eravamo mai dati molto pensiero. In ottobre, invece, il fronte era molto vicino, coi tedeschi dappertutto e mia madre aveva paura che tutti quei partigiani in casa ci avrebbero procurato dei guai. Ci risposero che quelli erano gli ordini del comando e non c’era niente da fare. Si sistemarono in casa, nell’aia e nel fienile. Il comando di quei partigiani era a Ca’ di Gostino, che è una casa a due o trecento metri sotto la nostra, più vicina al fiume. Questi partigiani parlavano un dialetto che somigliava molto al nostro perché erano di Imola, Castel Bolognese, Casola, più qualcuno che era forestiero e dopo poco già ci intendevamo molto bene. Avevano con sé anche dei prigionieri tedeschi. I partigiani, che avevano una gran fame, fecero fuori parecchi dei nostri polli, altri animali e anche una vitella, pagandoci regolarmente la nostra parte di mezzadri. Per la metà del padrone dissero che ci pensavano loro. Assieme alla nostra famiglia ce n’erano altre due di nostri parenti sfollati; in tutto più di venti persone e quindi a Piano di Sopra si stava anche un po’ strettini. Io avevo allora 18 anni e pensavo che se venivano su i tedeschi mi prendevano per partigiano e questo mi preoccupava un po’. II mattino del giorno 11, infatti, appena giorno, mia madre svegliò all’improvviso noi e i partigiani, gridando che venivano i tedeschi. Si sentiva urlare e sparare fuori della casa. Dopo qualche minuto arrivarono nella cucina Bruno e Bob, che era il comandante di tutti i partigiani. Aveva una coperta sulle spalle e, con la voce affannata per la salita, gridava ai partigiani che si dovevano preparare. Disse che i tedeschi avevano attaccato Ca’ di Gostino, che Attila era morto presso la Chiesa di Purocielo e che i tedeschi ci erano già addosso. Un po’ alla volta arrivarono anche gli altri del comando, bersagliati dalle mitraglie su per la salita, ed anche altri partigiani da una casa vicina, chiamata casa Marcone. Da quel momento cominciò una sparatoria fortissima. I tedeschi venivano su dal fiume e Bob cercava d’insegnare i punti e le finestre più adatti per colpirli. Non posso dire quanto è durato il combattimento, perché quelli sono momenti brutti e non si può pensare molto. Io ero rimasto in cucina con una quantità di partigiani e coi prigionieri. Guardavo fuori dalla finestre e vedevo che i tedeschi sparavano al sicuro, dietro buoni ripari della terra, senza farsi vedere. A cinque o sei metri dalla finestra, tra il pagliaio e il pozzo, c’era il commissario Tom con degli altri. Lo guardavo con attenzione perché sparava un po’ col mitra e un po’ col fucile e mi sembrava molto sicuro del fatto suo. All’improvviso l’ho visto irrigidirsi, mentre qualcosa si staccava dalla sua schiena: era stoffa insanguinata ed i proiettili l’avevano colpito sotto il collo. L’ha seppellito più tardi mia madre, quasi nello stesso punto in cui era caduto. Intanto i tedeschi avevano aggirato quasi tutta la casa, le munizioni stavano per finire e non c’era più molto tempo da perdere. Io, due cugini, seguendo i partigiani, ci buttammo verso il crinale nella direzione che ci aveva detto Bob. II cuore mi scoppiava per lo sforzo, per la paura, ma non potevo fermarmi neppure per tirar fiato perché i tedeschi, dall’aia, ci facevano il tiro a segno. Quasi sul crinale un partigiano ci chiamò gridandoci di cambiare direzione, ma noi non eravamo partigiani e scavalcammo la cresta buttandoci a rompicollo verso la Faentina. Ci fermammo un po’ in un campo di granoturco, ma anche lì le pallottole ci cercavano come una grandine, tra le foglie secche. Ricominciammo a correre e, dopo un po’, andammo a finire proprio in braccio ai tedeschi. A Faenza ho visto due medici della brigata in un ufficio: li colpivano con pugni e spinte, ma loro non dicevano niente e sembravano già rassegnati. Da allora non li ho più rivisti e non so che fine abbiano fatto. Io, fortunatamente, me la sono cavata. I tedeschi non hanno bruciato la mia casa e quelli della mia famiglia non hanno avuto noie. Ormai sono passati molti anni, ma fra quei ragazzi del 1944 ne ricordo uno in particolare. Si chiamava Delmo: era un tipo in gamba, simpatico, che s’intendeva anche di campagna. Chissà che fine ha fatto! Mi piacerebbe proprio rivederlo! Possibile che questi partigiani siano morti tutti?
Riportiamo la sua testimonianza pubblicata in Luciano Bergonzini, La Resistenza a Bologna. Testimonianze e documenti, Volume V, pp. 236-237
Giuseppe Varani, «Furio», nato l’1 maggio 1923 a Loiano. Nel 1943 residente a San Lazzaro di Savena. Diploma di avviamento professionale. Tornitore all’OMA. Prestò servizio militare in marina a Venezia dal dicembre 1942 all’8 settembre 1943. Dopo l’inizio della lotta di liberazione fu uno dei primi a organizzare politicamente i compagni di lavoro all’OMA e tra gli organizzatori dello sciopero aziendale l’1 marzo 1944, nel quadro dello sciopero politico provinciale. Fu uno dei promotori del CLN di San Lazzaro di Savena. Nell’estate, con un gruppo di giovani, raggiunse la 36ª brg Bianconcini Garibaldi e prese parte ai principali combattimenti che questa formazione sostenne sull’Appennino tosco-romagnolo. Il 17 luglio 1944 il suo btg respinse l’assalto fascista al comando partigiano sistemato a Casetta di Tiara (Firenzuola – FI). Il 9 agosto, mentre prendeva parte al combattimento per la difesa della Bastia, cadde in un burrone e si fratturò il piede sinistro. Curato da Giovanni Battista Palmieri, anche se zoppicante il 10 ottobre prese parte al combattimento a Monte Colombo. Il 19 ottobre, grazie all’aiuto dei compagni, attraversò la linea del fronte e fu ricoverato prima all’ospedale di Firenze, poi a quello di Perugia e, infine, al Celio a Roma. Il 25 maggio 1945 fu trasferito al Putti di Bologna dove subì l’ultimo di una lunga serie di dolorosi interventi.
[Testimonianza rilasciata nel 1970. Impiegato comunale, residente a San Lazzaro di Savena] Sono entrato nella Resistenza all’inizio dell’anno 1944. In quel tempo lavoravo all’Officina « OMA » di Pontevecchio, in qualità di tornitore meccanico. I titolari dell’azienda non ebbero alcuna difficoltà per farmi avere l’esonero da nuove chiamate alle armi, dopo il tragico sbandamento delle forze armate italiane dell’8 settembre 1943. Facevo naturalmente il loro interesse, anche perché, pur essendo giovane, il mio lavoro lo svolgevo con una certa capacità e competenza, risultati questi di una qualificazione professionale che mi ero formato, con molti sacrifici, frequentando per tre anni dei corsi serali di lavoro (addestramento, qualificazione e specializzazione), presso l’Istituto « Aldini-Valeriani » di Bologna, al termine dei quali ottenni il diploma di operaio specializzato. In officina ebbi i primi contatti con alcuni compagni della Resistenza: Enzo Fustini, Guido Castellari, Antonio Mezzaqui, Armandino Grossi, Enrico Zaniboni, Giorgio Righi, ed altri. Questi compagni mi fecero comprendere la gravita del momento e la grande importanza di una nostra adesione al movimento partigiano. Determinante per la mia scelta, in quel delicato momento, fu anche l’opera di convincimento paziente e costante di uno sfollato che era venuto ad abitare nei pressi di casa mia, Guido Muzzi, antifascista di vecchia data, che riuscì a togliermi tutti i dubbi che ancora, naturalmente, avevo in testa essendo nato e cresciuto in pieno regime di dittatura fascista. Dal compagno Guido Muzzi, oltre alle convincenti ed esaurienti lezioni di antifascismo, ricevetti anche dei libri molto interessanti, proibiti dal regime di allora: « La Madre » di Massimo Gorki, « II Tallone di ferro » di Jack London, un volume de « II Capitale » di Carlo Marx ed altri libri che tenevo ben nascosti sotto il materasso del mio letto, e che leggevo un po’ alla volta, di notte, prima di addormentarmi. Ricordo che queste letture mi entusiasmarono. Con i compagni di lavoro iniziammo qualche piccola attività per la Resistenza. Andavamo fuori di notte, a gruppi, per attaccare manifesti che inneggiavano alla Resistenza, che invitavano i giovani a non presentarsi ai repubblichini, a darsi alla macchia ed a passare fra i partigiani. Facevamo anche delle scritte, col minio rosso, sui muri, e spargevamo nelle strade dei chiodi a tre punte, che costruivamo di nascosto, in officina, e che bloccavano i convogli di automezzi nazifascisti. Ricordo i commenti che la popolazione faceva leggendo quei manifesti e quelle scritte sui muri. Era una propaganda molto interessante ed efficace, ed otteneva degli effetti persino esagerati. Infatti si sentiva dire che i partigiani erano scesi dalle montagne per affiggere i manifesti e per fare quelle scritte sui muri. Mescolati alla popolazione e udendo quei commenti, noi quasi scoppiavamo dalla gioia e dalla soddisfazione. Nel mese di marzo 1944 riuscimmo ad organizzare, all’interno della fabbrica, il primo sciopero contro la guerra fascista. Uscimmo tutti fuori e, con cartelli, ci portammo dinnanzi al Calzaturificio « Montanari ». dove era occupata prevalentemente una mano d’opera femminile, ed assieme a queste donne formammo un corteo. Percorremmo la via Mazzini fino alla Porta e qui un oratore improvvisato tenne un breve comizio. Il mio morale e quello dei compagni era salito alle stelle. Successivamente anche a San Lazzaro di Savena venne costituita la prima organizzazione della Resistenza. Fu formato il Comitato di Liberazione Nazionale dentro il rifugio antiaereo, vicino a casa mia. Era presente un compagno inviato da Bologna, che non avevo mai visto prima d’allora, ma che parlava molto bene, con tanta chiarezza. Questo Comitato venne formato oltre che dai compagni Guido Muzzi ed Enzo Fustini, anche da Armando Piazzi, Bruno Maccaferri, Guido Romagnoli, Athos Buriani e Renato Medici. A me venne affidato l’incarico di reperire i giovani da arruolare fra i partigiani. Mi misi immediatamente all’opera e trovai subito dei validi ed ottimi collaboratori in giovanissimi come Sergio Sasdelli, Renato Benfenati, Valentino Masetti, Giuseppe Volta ed altri amici. All’inizio del mese di giugno 1944 espressi al CLN il desiderio di essere incorporato in una brigata partigiana che operava sulle nostre colline, per poter combattere con armi alla mano il fascismo ed il nazismo. Le piccole cose che avevo svolto fino allora, seppure importanti, mi parevano molto scarse. Questo mio desiderio fu accolto dal CLN, il quale colse l’occasione per affidarmi una ventina di giovani, anch’essi da incorporare: erano in gran parte giovani renitenti alla leva, che fino allora erano stati nascosti, ma che desideravano entrare nelle formazioni partigiane armate. Dovevamo incontrarci con una staffetta a Savazza di Monterenzio, e diedi a questi giovani l’appuntamento un mattino, all’alba, sul greto del fiume Idice, in località Castel de’ Britti. Percorremmo, a gruppi, il corso del fiume fino a Savazza, dove ci attendeva la staffetta Rossana De Giovanni la quale, assieme alla sua cugina Silvana, la sera successiva, in casa della famiglia Cevenini, nei pressi del ponte di Cà di Lavacchio, ci fece incontrare con una compagnia partigiana comandata da Guerrino. Una grande delusione ci accolse: non potevamo essere incorporati perché eravamo tutti disarmati e nella brigata partigiana non vi erano armi. Guerrino ci consigliò di recarci, la notte successiva, nella vallata del Zena, nei pressi di Botteghino di Zocca, dove operava un’altra brigata partigiana che, a suo dire, aveva armi in abbondanza. Rossana e Silvana ci accompagnarono in un vecchio casolare di montagna, nei pressi di Cà di Bertano, per trascorrervi la notte ed il giorno successivo. Eravamo però quasi senza viveri. Guerrino ci diede una coppa di maiale ed alcuni salami, ma eravamo in una ventina e questo non bastava. Fu così che io e Vulcano (Italo Negrini) scendemmo in paese, a Bisano, per trovare qualcosa da mangiare. Veramente commovente fu l’accoglienza di quei poveri montanari che facevano a gara per procurarci quanto chiedavamo. Rientrammo a Cà di Bertano carichi come muli: un sacco di pane ancora caldo, appena sfornato, un mezzo prosciutto, alcuni fiaschi di vino, indumenti ed altre cose. All’imbrunire ci mettemmo in cammino per raggiungere Botteghino di Zocca, come consigliatoci da Guerrino. Arrivati a Castelnuovo cominciò a cadere una fitta pioggia che continuò anche per tutto il giorno successivo. Fummo generosamente ospitati dai contadini poveri di quel piccolo paese, che misero a nostra disposizione le stalle ed i fienili, dove ci riparammo dalla pioggia e ci riposammo. Giungemmo a Botteghino di Zocca dopo due giorni, piuttosto malmessi, e qui provammo la seconda delusione: nella zona non vi erano i partigiani. Erano partiti il giorno precedente e non riuscimmo a sapere dove si erano trasferiti. I compagni cominciarono a dimostrare sfiducia e demoralizzazione. Anch’io rimasi molto male. Qualcuno cominciò ad esprimere la volontà di rientrare a casa, per decidere il da farsi. Altri mi dissero che, non potendo assolutamente ritornare in pianura perché renitenti alla chiamata di leva, sarebbero rimasti nascosti nella zona. Io, invece, mi proposi di raggiungere, da solo, Castel del Rio, dove, con certezza, sapevo che esisteva una base della 36a brigata Garibaldi, Promisi a questi giovani che appena raggiunta questa brigata avrei fatto tutto il possibile, attraverso staffette, per aprire a loro la stessa strada. Salutati i compagni, con questa promessa partii immediatamente, e dopo un’intera giornata di cammino, raggiunsi Visignano, sotto il Monte La Fine. Qui entrai nell’osteria del paese per mangiare qualcosa e per riposarmi. Con stupore notai seduti ad un tavolo, intenti a bere, tre ragazzi con zaino ed equipaggiamento da montagna, che parlavano con accento ferrarese. Attaccai discorso con una certa prudenza, e mi dissero che anche loro cercavano di raggiungere la brigata. Uno di questi si chiamava Biagio, ed era un invalido di guerra. Nonostante l’infermità contratta durante il servizio militare prestato nella marina, aveva deciso di combattere ancora come partigiano. Mi unii a loro e fummo ospiti, per un paio di giorni, del parroco di Visignano, che era un prezioso collaboratore della Resistenza, unitamente al parroco di Tirli, e, attraverso loro, raggiungemmo un reparto della 36a brigata Garibaldi che era dislocato nei pressi del monte Faggiola. Fummo condotti al comando della brigata, e interrogati dal « Moro », il commissario politico, al quale consegnammo i documenti personali che furono immediatamente distrutti. Consegnammo pure il danaro in nostro possesso, e ci fu consentito di tenere soltanto 150 lire in tasca. I tre ferraresi furono assegnati alla compagnia di Marco ed io a quella del Negus. Poiché scarseggiavano le armi, io rimasi qualche giorno disarmato. La brigata in quei giorni ricevette un aviolancio di armi, e così ebbi la possibilità di avere un « parabello », dotato di sei caricatori, ed un sacchetto di pallottole. Durante l’interrogatorio al comando di brigata informai il Moro dei compagni che avevo lasciato al Botteghino di Zocca. Fu con grande mia soddisfazione che nei giorni che seguirono vidi arrivare la quasi totalità di questi. Vi immaginate, all’incontro, la nostra soddisfazione. Ne mancavano soltanto tre. Questi avevano preferito rimanere nascosti nelle loro case. Ero molto contento perché la prima missione che mi era stata affidata l’avevo portata a compimento, seppure superando molte difficoltà. Dopo il lancio di armi, la brigata si trasferì alla Bastia, e la compagnia del Negus, della quale facevo parte, si accampò a Diacci, una casa colonica posta all’estremo sud dello schieramento. Qui però, fino ad allora, scontri non ve ne furono, e si faceva soltanto il servizio di guardia e di pattuglia sul monte Carzolano. Un giorno arrivò un ordine dal comando di trasferirci alla Casetta di Tiara, una borgata di poche case attorno alla chiesa, posta ad ovest dello schieramento della brigata, a quasi tre chilometri di distanza dalla strada Montanara che unisce Firenze a Imola, attraverso l’Appennino. Giungemmo alla Casetta di Tiara una domenica sera e la popolazione ci accolse festosamente. Tutti ci offrirono qualcosa: vino, pane, sigarette. Per una settimana ci fu calma, e si continuava con il consueto servizio di guardia e di pattuglia. Nei momenti di pausa si organizzava « l’ora politica ». C’era una relazione introduttiva di Tagano, che era il commissario politico di compagnia, alla quale faceva seguito la discussione. I partigiani di qualsiasi fede politica, ed in tante occasioni anche gli abitanti del luogo, dicevano la loro opinione, ponevano delle domande sulla situazione politica, e, a volte, si affrontavano anche delle questioni storiche e teoriche. Era aspirazione unanime di fare tutto il possibile affinchè la guerra finisse al più presto, di ritornare alle nostre case, di iniziare la ricostruzione del Paese dalle rovine della guerra e di organizzare la società umana in un sistema di uguaglianza, di giustizia e di fraternità. Volevamo tutti un modo di vivere diverso. La mattina del 17 luglio, era un lunedì, venne l’attacco alla nostra compagnia, e posso dire che quello fu il mio battesimo del fuoco. Non si trattò di una semplice puntata, ma di un vero e proprio attacco in forze con l’obiettivo di rompere le nostre linee e di disperdere la brigata. La nostra compagnia, in quel momento, era formata da circa 40 partigiani, e si trovava a circa un’ora di cammino dalle compagnie di Simì e di Guerrino, ed a circa tre ore dalla sede del comando di brigata. La colonna nemica, forte di circa 200 fra militi repubblichini e tedeschi, era stata fatta precedere da una trentina di fascisti camuffati da partigiani, col fazzoletto rosso al collo, che avevano il compito evidente di trarci in inganno. Passarono dalla Cà di Molinaccio, che quel giorno era abitata da due vecchi soli, e chiesero se vi fossero dei partigiani nei dintorni. Ne ebbero, naturalmente, una risposta negativa. Allora cominciarono ad avanzare con ostentata disinvoltura, fino al paese. Entrarono rumorosamente nell’osteria e iniziarono a gridare: « Dove sono i partigiani? Perché non si fanno vivi? » e spacconate simili, fino a quando non arrivò la colonna e tutto il paese fu presidiato dalle forze nemiche che procedevano, però, con molta cautela, in stato di allarme. Nessuno di noi, in quel momento, si trovava nel centro dell’abitato. Il nostro comandante, il Negus, che era stato informato dai contadini dell’imminente attacco, ci schierò per il combattimento. Fece appostare il grosso della compagnia su un costone, protetto dalla macchia, che dominava il paese, ordinando alla squadra comandata da Nino, della quale io stesso facevo parte con Avio, Pozzetti, Barone ed Alvaro, di appostarci ad una quindicina di metri dalla casa che era la sede della nostra compagnia, ordinandoci, inoltre, di non aprire il fuoco se non dopo di lui. I fascisti sfondarono la porta con dei tronchi di albero e, trovando all’interno traccia della nostra occupazione, si apprestarono ad incendiare la casa. Erano vicinissimi a noi, e udivamo tutto ciò che dicevano. Qualcuno parlava con accento meridionale. Forse si trattava di qualche canaglia che aveva dovuto rifugiarsi al nord in seguito all’avanzata delle truppe alleate. Il Negus non permise loro di incendiare la casa. Appena si accorse del pericolo d’incendio, si alzò in piedi di scatto, su una roccia completamente scoperta, ed aprì il fuoco con il suo « parabello », sparando con una sola raffica un intero caricatore. Noi, che eravamo a brevissima distanza dai nemici, lo imitammo: Nino col mitragliatore e noi con le nostre armi in dotazione. I pochi superstiti nemici per un attimo abbozzarono un tentativo di resistenza, poi cambiarono subito idea e decisero di darsi alla fuga, che fu cosi precipitosa che quasi abbandonavano a terra il loro comandante ferito alla testa e ad una spalla. Un gruppo composto da una ventina di militi della brigata nera riuscì, però, a metterci in difficoltà nel ripiegamento verso il luogo occupato dalla compagnia. Ci avevano preceduti e ci sbarravano il passo col fuoco delle loro armi. Le cose si stavano mettendo male per noi, quando, improvvisamente, udimmo una lunga raffica di un nostro mitragliatore, ed i brigatisti neri in parte caddero colpiti, e gli altri fuggirono precipitosamente. Era stato Bari, il tiratore scelto della nostra compagnia, che era riuscito, sebbene fosse distante, a seguire l’azione nemica ed a stroncarla, permettendoci di porci in salvo e di rientrare in compagnia. In quella occasione Bari fu colpito di striscio al mento da una pallottola nemica che gli forò anche il giubbotto, all’altezza della spalla sinistra. Il contrattacco della nostra compagnia fu così improvviso che le compagnie di Simì e di Guerrino, che erano accorse in nostro aiuto, giunsero quando avevamo già cacciati i nemici dalla Casetta di Tiara. Malgrado la nostra pronta azione di sorpresa, i fascisti erano però riusciti ad incendiare la chiesa del paese ed a rubare in canonica i preziosi che i parrocchiani e gli sfollati avevano affidato alla custodia del parroco, don Cinelli. Nella loro precipitosa ritirata, passando dalla Cà di Molinaccio, assassinarono i due vecchietti e bruciarono i loro corpi in cucina, dopo aver frettolosamente rubato tutto ciò che si trovava alla loro portata di mano. Altri tentativi di incendi, saccheggi e distruzioni furono impediti dalla nostra pronta irruzione in paese. Nel pomeriggio dello stesso giorno i nazifascisti, sonoramente sconfitti nella mattinata, tentarono un altro attacco ad est del nostro schieramento. Una lunga colonna formata da circa 400 uomini, dotati anche di mortai, proveniente da Palazzuolo, si dirigeva verso le nostre posizioni sulla Bastia. Fu ancora la nostra compagnia a respingere anche questo attacco, infliggendo gravissime perdite al nemico, e recuperando un ingente quantitativo di armi e munizioni. Da parte nostra avemmo solo un ferito lieve. Il capo squadra Peppino (Giuseppe Calzolari) ebbe una pallottola nemica che gli si conficcò nel polpaccio di una gamba. Questa gli fu estratta prontamente dai medici della nostra infermeria, e dopo qualche giorno era già guarito completamente. La compagnia del Negus quel giorno ebbe un encomio solenne, e fu citata ad esempio nel bollettino della brigata. Verso la fine del mese di luglio la nostra brigata si rafforzò numericamente. L’assorbimento del battaglione «Ravenna» portò i nostri effettivi a circa 1.200 uomini. Questo battaglione, formato prevalentemente da compagni romagnoli di Faenza, Castel Bolognese, Lugo, Massalombarda, Cotignola, Russi e Ravenna, fino allora aveva operato in modo autonomo e il congiungimento con la nostra brigata era avvenuto d’intesa col CUMER (Comando Unico Militare Emilia-Romagna). Il battaglione « Ravenna » fu frazionato in compagnie, comandate rispettivamente da Gino (Gino Agostini di Lugo), da Kaki (Dato Cavallazzi, di Castel Bolognese) e da Ribelle di Imola. Erano compagni molto coraggiosi e di notevole esperienza. Non dimenticherò mai il compagno Gino Monti di Faenza, commissario politico del battaglione, perseguitato politico antifascista ed oratore eccezionale. I suoi discorsi, fatti con parole semplici, ma molto convincenti, mi lasciavano incantato. Era un vero trascinatore. Gli uomini del battaglione « Ravenna » erano però male armati, ed erano sprovvisti di armi automatiche. Il Comando di brigata decise allora di trasferire in queste compagnie uomini dotati di tali armi. Io, che ero armato di un parabello, fui trasferito nella compagnia di Kaki, ed ebbi così la possibilità di conoscere questi compagni romagnoli che mi accolsero molto fraternamente. La compagnia aveva la sua base alla Faina, un vecchio casolare a poche centinaia di metri dal cimone della Bastia, e controllava una posizione importante dello schieramento della brigata in quanto si presumeva che eventuali attacchi nemici avvenissero da quella parte perché il versante est si affacciava su Palazzuolo e sulla strada Casolana. Trascorsero alcuni giorni tranquilli; effettuavamo il consueto servizio di guardia sulla Bastia e di pattuglia nella zona circostante. La mattina del 9 agosto fummo attaccati proprio da quella parte. Nella notte i nazifascisti, protetti dall’oscurità dalla nebbia, che avvolgeva la cima del monte, erano riusciti a portarsi a poche centinaia di metri sotto il nostro schieramento, piazzandovi anche alcuni mortai. Il combattimento iniziò all’alba e si protrasse fino verso mezzogiorno. Le nostre posizioni furono strenuamente difese, e passammo anche al contrattacco. Il nemico, molto superiore in uomini e mezzi, sembrava fosse disperso. Dopo alcune ore il comando di brigata decise di ritirare il grosso delle compagnie schierate nelle posizioni, lasciandovi però alcune grosse pattuglie per una attenta vigilanza. Io rimasi in postazione con una di queste pattuglie. I nazifascisti non erano però tutti fuggiti. Approfittando della giornata nebbiosa si erano ulteriormente rafforzati con nuovi effettivi e s’erano ammassati proprio sotto il nostro schieramento. Nel tardo pomeriggio iniziarono un fuoco infernale anche con mortai che sparavano sulle nostre postazioni. Noi resistemmo strenuamente, rispondendo col fuoco di tutte le nostre armi. Un nostro mitragliatore si inceppò per surriscaldamento della canna. I nemici erano giunti a pochi metri da noi, e allora sganciammo anche tutte le bombe a mano che avevamo in dotazione. Fummo costretti ad un ripiegamento dalle nostre postazioni sulle quali balzarono immediatamente i nazifascisti che tentarono di falciarci con le raffiche dei loro mitragliatori. Fu in questo combattimento che io precipitai in un burrone, sotto la Faina, profondo una quindicina di metri, fratturandomi il piede sinistro. Sul momento pensavo che si trattasse di una semplice distorsione, ma dal lancinante dolore e dall’immediato gonfiore del piede, che la scarpa non riusciva più a contenere, capii che si trattava di cosa più grave. Non ero assolutamente in grado di reggermi in piedi, e mi trascinavo in avanti, con le mani e con le ginocchia. Nascosi il mio « parabello » con i caricatori e le munizioni in un luogo sicuro, perché non ero in grado di portarlo, e rimasi armato della sola pistola. Controllai scrupolosamente quante pallottole contenevano i due caricatori, con l’intento di serbare l’ultima per me, in caso di disperata necessità. Fui soccorso in serata da Teo (Timoteo Romani di Imola) e da altri compagni della compagnia di Simì, che era accampata a Pian dell’Aiara, dove aveva sede anche la nostra infcrmeria. AlPinfermeria della brigata — diretta dal dott. Romeo Giordano — ricevetti le prime cure da Gianni Palmieri, il quale mi fasciò molto stretto il piede e la gamba con una fascia molto robusta, steccandomi la parte con della scorza d’albero molto resistente, legata con dello spago, come una rozza ingessatura. II comando di brigata mobilitò nella notte alcune compagnie, e con il comandante Bob in testa, il cimone della Bastia fu riconquistato ed il nemico fu ricacciato oltre il nostro schieramento. Fu quella la battaglia della Bastia che ebbe fasi alterne e che, alla fine, si concluse con una piena vittoria della nostra brigata. Il giorno dopo alcuni compagni, dietro mie precise indicazioni, recuperarono il mio « parabello » con i caricatori e le munizioni. Nei giorni che seguirono la brigata fu nuovamente attaccata. Questa volta i nazifascisti, con dei cannoni, mortai e mitragliere da 20 mm. piazzati sul Giogo, nella linea « Gotica », sparavano in continuazione sulle nostre postazioni del monte Carzolano e su tutte le case circostanti. I proiettili giunsero anche a Cà di Vestro, sede del comando di brigata. Venne dato l’ordine di abbandonare tutte e case e di riparare nella boscaglia. Anche l’infermeria dove ero ricoverato abbandonò la casa di Pian dell’Aiara, presa di mira dalle cannonate. Io fui sistemato, assieme ad altri feriti, in mezzo ad un bosco, ed i medici si prodigarono nel prestarci tutte le cure necessarie. Le intenzioni dei nazifascisti erano più che evidenti: volevano a tutti i costi disperdere la nostra brigata, sparandoci addosso da lontano, senza rischiare di venire all’attacco. Rimanere ed accettare il combattimento in quelle condizioni sarebbe stato un vero suicidio. Fatte le debite valutazioni, il nostro Comando, dopo due giorni, decise di abbandonare la zona. Eravamo in diversi feriti e fummo sistemati un po’ ovunque. Assieme a Josef, un compagno cecoslovacco ferito anch’esso ad una gamba, fui ospitato da una famiglia di contadini, nostri preziosi collaboratori, a Rimirara, un casolare sotto il monte Faggiola. La brigata intanto si trasferì nella zona di Fornazzano, in una valle oltre la strada di Casola Valsenio. Io e Josef rimanemmo a Rimirara 25 giorni, amorevolmente custoditi dalla famiglia che ci ospitava. Ogni tanto ricevavamo visite dai medici della nostra infermeria i quali, sfidando innumerevoli rischi e pericoli, si recavano presso di noi per prestarci le necessarie cure. Trascorso questo periodo di riposo la mia frattura al piede sembrava che si fosse consolidata e allora, a dorso di mulo, raggiunsi nuovamente la brigata e rientrai in compagnia. Non potevo ancora reggermi in piedi molto bene, ma cercavo di rendermi utile ugualmente facendomi assegnare dei turni di guardia seduto nel folto dei boschi, o coadiuvando i compagni addetti alla cucina. La mattina del 13 settembre vi fu un nuovo attacco. I nazifascisti ci avevano nuovamente individuato, e provenendo dalla strada Casolana puntarono direttamente sulle nostre postazioni sul monte Pianaccino, dopo aver battuto la zona da noi occupata con innumerevoli proiettili sparati da mezzi semoventi piazzati nella strada, e da mortai. Fu la compagnia di Kaki alla quale appartenevo, e quelle di Sergio e di Amilcare che sostennero il primo urto. L’arrivo delle compagnie di Marco, di Attila, ed altre, prontamente sopraggiunte di rinforzo, unitamente al comandante di brigata Bob, ci diedero la possibilità di contrattaccare i nemici, che furono inseguiti fino al fondo valle, causando loro notevoli perdite in uomini e mezzi. Intervennero anche due caccia alleati a darci una mano. Passavano per caso e, forse vedendo nella strada il movimento di mezzi nazisti, si abbassarono a mitragliarli. A seguito di questo nuovo attacco, il comando di brigata decise un nuovo trasferimento. Questa volta fu scelta la zona di Fontana Moneta, una vallata nei pressi di Marradi. Io dovetti nuovamente essere ricoverato alla infcrmeria in quanto il mio piede si era nuovamente gonfiato e non riuscivo più a reggermi in piedi. In questo frattempo avvennero dei fatti molto importanti. Per ordine del CUMER la brigata venne frazionata in quattro battaglioni. Si riteneva imminente l’avanzata delle truppe alleate per liberare Bologna e tutte le città dell’Emilia e Romagna, e la nostra brigata aveva il compito di precedere gli alleati nella liberazione delle nostre città. Al 1° battaglione, comandato da Libero, fu assegnato il compito di liberare i paesi della vallata del Santerno e si trasferì nella zona di monte La Fine. Il 2° battaglione, comandato da Ivo, doveva liberare Faenza. Il 3° battaglione, comandato da Carlo, doveva scendere a Imola e per questo si trasferì nella zona di monte Battaglia. Il 4° battaglione, comandato da Guerrino, che doveva anch’esso scendere a Faenza, si trasferì nella zona di Purocielo. I piani del CUMER, purtroppo, non coincisero con i piani degli alleati. La prevista avanzata alleata prima dell’inverno non ebbe luogo, e cruenti, sanguinosi scontri furono sostenuti dai quattro battaglioni contro preponderanti forze nazi-fasciste a monte Battaglia, a Purocielo ed a Cà di Guzzo. Col 4° battaglione, che si trasferì a Purocielo, rimase anche l’infermeria, che fu sistemata nella Canonica della Chiesa. Io vi rimasi ricoverato ancora una settimana, poi, sentendomi meglio, chiesi ed ottenni di essere inviato alla compagnia di Ettore, nella quale militavano diversi compagni di San Lazzaro di Savena. Purocielo si trova a nord di Cà di Malanca, sulle colline di Brisighella. Dai pendii si scorgeva, anche ad occhio nudo, la pianura di Faenza. Ci fu qualche giorno di calma. La compagnia di Ettore era accampata sotto monte Colombo, nella terza casa dopo Cà di Gostino, dove aveva la sua sede il comando di brigata. All’alba del 10 ottobre fummo attaccati di sorpresa. I nazifascisti erano riusciti a giungere fino nei pressi della sede del Comando, dalla quale in quel momentostava uscendo il comandante Attila (Antonio Mereu), che andava a raggiungere la sua compagnia. Fu freddato con un colpo di « Mauser » alla gola, e questo fu l’allarme. In pochi minuti il comando fu preso d’assalto dai nazisti, coadiuvati da reparti della brigata nera. Erano in circa 500 uomini, particolarmente addestrati per i rastrellamenti contro i partigiani. Molti del comando morirono combattendo a Cà di Gostino. I sopravvissuti, fra cui Bob, raggiunsero la compagnia di Tito, a Piano di Sopra, in quel momento impegnata in una battaglia durissima. Noi di Ettore ricevemmo l’ordine di proteggere la ritirata della compagnia di Tito, che aveva subitonotevoli perdite. Successivamente ci portammo sul crinale ad est, che si affaccia sulla strada Faentina, in quanto ci fu segnalato che altri reparti nemici giungevano da quella parte. Arrivammo sul crinale prima di loro, attaccandoli di sorpresa e respingendoli. Poco dopo giunse una staffetta del comando con l’ordine di ritirarci immediatamente, in quanto i nazifascisti tentavano di aggirarci alle spalle. Si trattava di scendere da monte Colombo fino al torrente, percorrendo un pendio scoperto, e di raggiungere Poggio Termine, nell’altro versante, dove erano appostate le compagniedi Amato e di Dino che, con una mitragliatrice di aereo, proteggevano la nostra ritirata. Io fui tra gli ultimi ad arrivare a Poggio Termine, perché, col mio piede fratturato, non riuscivo a camminare. Verso sera i nazifascisti cessarono il fuoco e si ritirarono lasciando sul terreno qualche centinaio di morti. Anche da parte nostra vi furono molte e gravi perdite. A Cà di Gostino erano morti Roberto Gherardi, il colonnello Saba, il comandante di battaglione Ivo Mazzanti, e tanti altri, fra i quali anche cari compagni di San Lazzaro di Savena: Dino Andreoli e Renato Torreggiani, miei amici fin dall’infanzia. Il giorno successivo i nemici si fecero nuovamente vivi, sparando però da grande distanza, con mortai, sulle nostre postazioni. Non si azzardarono ad attaccarci a distanza ravvicinata per la lezione ricevuta il giorno precedente. La linea del fronte era a brevissima distanza e gli alleati quel giorno ci furono nemici. Sorvolarono le nostre postazioni con una « Cicogna » la quale, vedendo tutto quel movimento di uomini col fazzoletto rosso al collo, comunicò la nostra posizione all’artiglieria che ci rovesciò addosso molte granate che scoppiavano in aria e che lasciavano poi cadere una fitta pioggia di schegge incandescenti. Quando venne sera il comando di battaglione convocò tutti i comandanti di compagnia per un esame della situazione che si era venuta a creare, e per decidere sul da farsi. In quella riunione fu deciso soprattutto di abbandonare la zona, e di tentare di attraversare il fronte per congiungersi con gli alleati. Nella notte stessa ci mettemmo in cammino. Una decina di feriti gravi furono trasportati alla Chiesa di Cavina, il cui parroco era un nostro amico collaboratore, e vi rimasero con alcuni medici ed infermieri. I feriti che potevano reggersi a cavallo seguirono il battaglione. Io fui tra questi. Con l’aiuto determinante della staffetta Pali (Sesto Liverani) attraversammo la strada Faentina, e, dopo aver passato a guado il Lamone, raggiungemmo la zona di Modigliana. Qui ci fermammo due giorni, cercando di non farci individuare dai nemici. Eravamo stremati materialmente e moralmente. Una dolorosa notizia ci giunse: i feriti, i medici e gli infermieri lasciati alla Chiesa di Cavina, erano stati scoperti e massacrati. Furono gli ultimi dei 270 compagni della mia brigata caduti nella lotta. Nella notte dal 18 al 19 ottobre 1944, con l’aiuto di Pali attraversammo il fronte e ci congiungemmo con gli alleati, i quali, dopo averci disarmati, ci portarono a San Benedetto in Alpe. Di qui ci fecero proseguire, a bordo di automezzi, fino a Firenze, avviandoci ad un Centro di raccolta, in una caserma di via della Scala. Io fui immediatamente ricoverato all’Ospedale Militare « San Gallo » e sottoposto ad esami radiografici al piede. Mi furono accertati esiti di frattura calcificata, però in posizione non regolare, e fu necessario un immediato intervento chirurgico. Rimasi ricoverato all’Ospedale di Firenze fino alla metà di gennaio 1945, e successivamente, per lasciare il posto ai numerosi feriti che giungevano giornalmente dal fronte, assieme ad altri feriti fui inviato a Perugia. Di qui, dopo circa un mese, fui trasferito a Roma e ricoverato all’Ospedale Militare « Celio ». Il 22 maggio 1945 dal Celio di Roma fui trasferito al « Centro Putti » di Bologna, ove rimasi ricoverato fino al 17 maggio 1946. Durante questo periodo di ricovero al « Putti » fui nuovamente operato dal colonnello medico prof. Oscar Scaglietti, e con questo intervento chirurgico il mio piede subì un notevole miglioramento. Questa, succintamente, è la storia della mia partecipazione alla Resistenza. Essendo stato uno dei protagonisti ne ho tratto una immensa esperienza politica, sociale, morale ed umana.
Testimonianza tratta da Luciano Bergonzini, La Resistenza a Bologna. Testimonianze e documenti, Volume V, pp. 158-166
Caricamento commenti...
Questo sito fa uso di cookie per migliorare l’esperienza di navigazione degli utenti e per raccogliere informazioni sull’utilizzo del sito stesso. Utilizziamo sia cookie tecnici sia cookie di parti terze. Proseguendo nella navigazione si accetta l’uso dei cookie; in caso contrario è possibile abbandonare il sito.Accetto